«La vaccinazione eterologa è già utilizzata da Paesi importanti come la Germania da diverse settimane, ma anche in altre aree del mondo, e i risultati sono incoraggianti». Solo tre giorni fa, il 14 giugno, il ministro della salute Roberto Speranza aveva rassicurato l’opinione pubblica. Ricorrere per il richiamo a un vaccino diverso da quello della prima dose non comporterebbe inconvenienti: «Vi sono alcuni studi che testimoniano come la risposta immunitaria sia persino migliore di quella con due dosi dello stesso vaccino», ha dichiarato il ministro. Ma nella comunità scientifica le posizioni sono tante, diverse, a tratti contrapposte. Come ogni dibattito che si rispetti infatti, intorno al tema della vaccinazione eterologa si sono formati due schieramenti. Uno composto da chi invita alla prudenza. L’altro, invece, da coloro che hanno accolto con entusiasmo la nuova soluzione. Prendendo in prestito una formula di Umberto Eco, da una parte abbiamo gli “apocalittici“, dall’altra gli “integrati“: cambia l’argomento della controversia, ma non la struttura del dibattito.

È già successo – In un’intervista del 13 giugno, rilasciata al Corriere della Sera, Fabio Ciciliano, segretario del Comitato tecnico scientifico, ha sottolineato che non è la prima volta che si ricorre a una vaccinazione eterologa: «La somministrazione eterologa di vaccini non è una novità nel panorama della profilassi delle malattie. È stata già impiegata per l’influenza e l’epatite B». Oltrettutto, il nostro Paese non è il primo ad avvalersi di questo approccio. «Per l’immunizzazione da Covid-19, la combinazione è stata approvata ed è da tempo utilizzata con diverse modalità in Francia, Canada, Germania, Danimarca, Svezia, Norvegia e Regno Unito». La posizione del segretario è supportata da ricerche scientifiche: «Diversi studi clinici internazionali hanno evidenziato la capacità dell’eterologa di indurre una adeguata produzione di anticorpi», ammette Ciciliano, «c’è ovviamente molta attenzione nel monitorare le reazioni avverse. In via preliminare è stata registrata una maggiore efficacia nella produzione di anticorpi con dosi eterologhe inoculate con un intervallo di 9-12 settimane (AstraZeneca-Pfizer) rispetto al protocollo vaccinale “omologo”».

Il dato incontrovertibile – Altra posizione “integrata” è quella di Giorgio Palù, presidente dell’Associazione italiana del farmaco. «Ormai gli studi sono inconfutabili», ha dichiarato l’oncologo su RaiRadio1, il 14 giugno. A quanto pare, gli esperimenti sul campo «stanno dimostrando la maggiore efficacia della vaccinazione eterologa». Il fatto che le ricerche non vantino un ampio numero di pazienti non preoccupa Palù: «Sono su centinaia di persone questo è vero, ma sono pubblicati in pre-print [versione preliminare di un articolo scientifico non ancora revisionata] da diverse Università europee». Ciò dimostra che «utilizzando due formulazioni diverse si stimola meglio il sistema immunitario perché si attiva sia l’immunità innata intrinseca che quella adattativa». Per il presidente dell’Aifa, «anche quei timori che c’erano dei primi dati sulla maggior reattogenicità stanno tutti sparendo».

Parola di decano – «Uno studio inglese e uno spagnolo indicano che dopo AstraZeneca si può fare un vaccino a Rna messaggero, ottenendo un buon risultato dal punto di vista della risposta anticorpale». Lo ha dichiarato il professor Silvio Garattini dell’istituto Mario Negri di Milano, decano dei farmacologi italiani. Intervistato da Repubblica il 14 giugno scorso, Garattini ha voluto rasserenare gli animi, sostenendo la propria posizione con la certezza granitica della scienza: «A livello di sicurezza non c’è problema. D’altra parte non ci sono ragioni teoriche per pensare che non si possano usare due vaccini diversi».

Senza i numeri non si va avantiAlberto Mantovani, direttore scientifico dell’Istituto clinico Humanitas di Rozzano (Milano), condivide l’entusiasmo. «Ci sono dati ottenuti a Oxford che suggeriscono che i vaccini a Rna messaggero siano un po’ più efficaci nel dare produzione di anticorpi», dice l’immunologo, rispondendo alle domande di Repubblica, «mentre i vaccini ad adenovirus sono un po’ più efficaci nel dare una risposta dei direttori dell’orchestra immunologica, i linfociti T. Quindi c’è una ragione nel cercare di avere il meglio dei due mondi». Nonostante ciò, Mantovani sceglie la cautela, ricordando quanto sia importante, nella ricerca scientifica, la raccolta delle informazioni: «Abbiamo pochi dati, ottenuti in Spagna e in Regno Unito. E noi abbiamo bisogno di dati per ragionare».

È ancora troppo presto – «Credo che questo mix si possa fare e diversi studi già presenti confermano ciò, ma è chiaro che si tratta di studi su numeri ridotti e che non valutano eventi avversi nel medio termine». Sono le parole di Fabrizio Pregliasco, virologo dell’Università di Milano. Per il Direttore Sanitario dell’IRCCS Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano, «sono ancora necessari una serie di approfondimenti che formalizzino ufficialmente questa possibilità». Pur accettando come attendibili i primi studi effettuati sulla la vaccinazione eterologa, Pregliasco sottolinea la necessità di un atteggiamento di cautela.

La chiarezza prima di tutto – Nello schieramento degli “apocalittici”, il più scettico è il professor Andrea Crisanti, direttore del dipartimento di Microbiologia dell’Università di Padova: «Dal punto di vista della vaccinazione eterologa, non ci sono abbastanza dati per dire che si possa fare», afferma il microbiologo, «e senza i dati, io non mi vaccinerei». Un presa di posizione agli antipodi rispetto ai toni rassicuranti degli scienziati che scommettono sulle (poche) ricerche finora effettuate. Oltre al rispetto della prassi analitica, Crisanti auspica un aumento dei dati sul mix vaccinale anche per mantenere saldo il rapporto di fiducia tra comunità scientifica e cittadinanza: «Dal punto di vista teorico non dovrebbero esserci problemi, ma senza trial, senza dati a supporto di questa cosa, non si può fare. Lo dobbiamo al cittadino».