MOLENBEEK

La copertina dell’edizione francese del libro di Hind Fraihi

«Le donne hanno un ruolo sempre più attivo nel reclutamento dei terroristi a Molenbeek, mentre dieci anni fa operavano nelle retrovie». Era il 2005 quando la giornalista freelance Hind Fraihi, classe 1976, si infiltrò nel “piccolo Marocco”, com’era allora noto il quartiere di Bruxelles dove hanno vissuto molti dei terroristi legati agli attentati del 13 novembre 2015 a Parigi. Girava voce che a Molenbeek diverse persone si stavano radicalizzando e che venivano arruolati terroristi per combattere in Afghanistan, Iraq e Cecenia. «Volevo capire se queste dicerie fossero reali», spiega Fraihi, belga di origini marocchine che aveva lavorato come volontaria in un’associazione per giovani a Molenbeek. «Ma sapevo che per ottenere risposte oneste avrei dovuto lavorare sotto copertura». Fraihi decise così di spacciarsi per una studentessa di Sociologia che stava raccogliendo materiale per la tesi di laurea. Affittò un appartamento insieme a una donna divorziata e per quasi tre mesi si mosse indisturbata nel quartiere-ghetto. Sul risultato dell’inchiesta, pubblicata a puntate su un giornale fiammingo, Fraihi ha scritto il libro Sotto copertura nel piccolo Marocco, recentemente tradotto in francese. «Già un decennio fa dicevo che Molenbeek era un rifugio per terroristi. So che in Italia alcuni mi chiamano “Cassandra” (la sacerdotessa della mitologia greca destinata a non essere creduta, ndr)», afferma sorridendo. «Quello che ho visto in poco più di due mesi non è il quadro completo della situazione. Inoltre sono una donna e non avevo accesso a diversi luoghi. Se fossi un uomo avrei potuto scoprire molte più cose».

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Qual è il ruolo delle donne nella radicalizzazione, ma anche nella deradicalizzazione, a Molenbeek?

È una buona domanda, perché ci sono sempre più donne sono coinvolte. Un esempio è quello di Fatima Aberkan, chiamata “la madre del terrorismo”: ha reclutato molte persone. Le donne hanno un ruolo sempre più attivo, mentre dieci anni fa stavano più nelle retrovie: operavano su Internet, traducevano documenti, scrivevano poemi sulla jihad. Ma adesso si occupano sempre di più del reclutamento. Per quanto riguarda la deradicalizzazione, a Molenbeek c’è un’associazione molto attiva di madri di foreign fighters.

Il terrorismo sembra un affare da uomini. Perché ha iniziato a riguardare anche le donne?

Qualche volta è una questione di femminismo: per loro è una sfida a rompere le barriere di un mondo maschile, ad avere una posizione in un universo dominato dagli uomini.

Come si è sviluppato il tuo lavoro?

Ho proposto l’inchiesta a un giornale fiammingo (Het Nieuwsblad, ndr). Hanno accettato entusiasti. Mi hanno aiutato molto per quanto riguarda la sicurezza: ogni sera mandavo un messaggio al mio direttore per dirgli che stavo bene, l’accordo era che se non lo avesse ricevuto avrebbe messo in allarme le autorità.

Ti sei sentita in pericolo durante o dopo l’inchiesta?

Durante l’inchiesta no, ma dopo sì. Quello che ho raccontato ha scatenato un aspro dibattito in Belgio. Il Paese non era pronto per le mie conclusioni. Era troppo presto, le mie tesi non erano politicamente corrette. Sono stata accusata di essere islamofoba e razzista, nonostante le mie origini siano marocchine. È stato molto strano, persino comico. Alcuni hanno insinuato che stessi giocando a favore della destra. Ho solo detto che c’era un problema di radicalizzazione a Molenbeek. Ho trovato libri, pamphlet, letteratura con contenuti a favore della jihad. Ho sentito imam incoraggiare la gente a compiere la Guerra Santa. Ho parlato con persone che reclutavano i giovani per andare in Afghanistan. Il pubblico non era pronto.

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Com’è cambiata l’opinione pubblica nei tuoi confronti dopo gli attacchi di Parigi e di Bruxelles?

L’opinione pubblica non ha avuto scelta, è stata costretta a prendere atto della realtà. La radicalizzazione ora è un problema talmente grande che non può essere negato. Persino la sinistra, che dieci anni fa descriveva la mia storia come un fantasy, ora deve ricredersi.

Chi prima ti accusava si è scusato?

Privatamente, non in pubblico. È una questione così delicata… Alcune persone hanno un grande ego.

Com’è cambiata la tua carriera dopo l’inchiesta?

A un certo punto ho dovuto farmi da parte per problemi di sicurezza. Avevo ricevuto delle minacce, la gente di Molenbeek non era contenta: avevo mentito loro, dicendo che ero una studentessa. Per qualche tempo ho avuto difficoltà a lavorare, anche a causa del dibattito che si era scatenato in Belgio. Dopo qualche mese sono andata in Marocco per fare un documentario. Mi sono specializzata su temi come la radicalizzazione e l’immigrazione. Oggi mi occupo ancora di queste tematiche.

Dieci anni fa ti immaginavi che alcuni abitanti di Molenbeek avrebbero potuto realizzare attentati come quelli di Parigi e di Bruxelles?

Sì, me lo aspettavo. Anche nel mio libro dico che c’era una minaccia reale. Ma nessuno mi credeva. L’opinione pubblica li considerava solo come dei ragazzi di strada, che trascorrevano le loro giornate a non fare nulla. Li hanno sottovalutati, e questa è la loro colpa. È la colpa della nostra società. Non abbiamo ascoltato quei ragazzi, non abbiamo provato a parlarci. Abbiamo perso un’occasione importante. Queste persone vanno prese seriamente, bisogna dare loro prospettive, ambizioni, un obiettivo. Non lo abbiamo fatto. Con arroganza abbiamo detto: “Ma no, questi sono solo ragazzi che bighellonano tutto il giorno, lasciamoli fare”. La forza di queste persone stava nella nostra arroganza.

Molenbeek è cambiata in qualche modo durante questi dieci anni?

Molenbeek è cambiata all’ombra dei problemi globali. Ora il reclutamento avviene più tramite Internet e meno sulle strade. Anche i profili sono cambiati. Mentre dieci anni fa si trattava soprattutto di una generazione senza futuro, oggi l’ideologia di Isis attira anche persone con una cultura più elevata, con un lavoro, con qualche prospettiva, con un diploma.

Cosa dovrebbero fare secondo te le autorità belghe per cambiare la situazione?

È difficile affrontare il problema. Anche la guerra in Siria, i conflitti in Palestina, l’invasione dell’Iraq giocano un ruolo cruciale. La gente di Molenbeek è fissata con il Medio Oriente. Pensano: “Nessuno aiuta le persone che vivono là, quindi lo farò io”. Si vogliono sentire utili in quella regione. La politica internazionale deve affrontare sfide molto importanti. In Belgio dobbiamo spendere più soldi soprattutto per l’educazione. A Molenbeek le scuole sono di cattiva qualità e le maestre demotivate. Bisogna iniziare dall’istruzione e dall’educazione dei genitori a casa. Inoltre noi europei siamo troppo individualisti, materialisti: dobbiamo trovare una nuova convinzione, una nuova ideologia che muova i cuori. Isis muove i cuori, è un sogno. L’Europa non ha sogni.

Perché finora non è stato fatto nulla?

Penso come altri che non si sia voluto fare nulla. La mia teoria è che si sia tentato di “esportare il terrorismo”. Hanno lasciato andare tutte quelle persone in Siria e in Iraq per liberarsi di loro. In questo modo il problema non è più del Belgio e dell’Europa. Nessuno pensava che i foreign fighters dell’Isis sarebbero tornati indietro come dei boomerang. Per questo le autorità non sono intervenute per fermarli, ma ora tutti sono preoccupati.

In che modo Molenbeek è diventata “il centro del terrorismo in Europa”?

Già nel 1995 a Molenbeek c’erano membri del gruppo terroristico algerino GIA (Groupe Islamique Armé, ndr). Nel 2001 Molenbeek era connessa con l’attacco alle Torri Gemelle e anche in altri casi di attentati terroristici si è dimostrato il legame con il borgo. Il vantaggio di Molenbeek è che ti permette di rimanere anonimo. C’è traccia di attività clandestine già dagli anni ’90, quando si commerciavano armi e droga. Era una base logistica.

Hai descritto l’attività terroristica a Molenbeek come “gangster Islam”. Leggendo alcuni dati su Molenbeek mi pare un’espressione particolarmente azzeccata: il 40 per cento dei giovani è disoccupato e il 40 per cento della popolazione musulmano. Tra questi due elementi quale credi sia la spinta più forte verso il terrorismo, la povertà o la fede musulmana?

Credo che si debba parlare di un mix dei due elementi. Il fulcro è l’ideologia dell’Isis: che dà a questa gente delle prospettive, la fa sentire importante. È un problema con diverse dimensioni, a partire dall’educazione a scuola come a casa. Anche la politica internazionale riguardante la Siria e l’Iraq ha un certo peso. La disoccupazione spinge queste persone a svolgere attività criminali, con gang che rubano soldi per la causa della jihad: ciò fa di loro dei “buoni” criminali, dei “criminali morali”.

Però non tutti i terroristi sono poveri e privi di educazione.

Puoi avere una buona educazione e un buon lavoro, ma se non ti senti apprezzato dalla tua società (che ti considera solo un immigrato, un musulmano) cercherai un’alternativa. Sfortunamente è Isis a farli sentire apprezzati. Molti giovani non si sentono connessi con la società occidentale: dovremmo trovare il modo di costruire ponti per instaurare una relazione tra questi ragazzi e la nostra società. Finché sono isolati è molto facile per Isis attirarli nella propria rete.

Nel tuo libro parli molto del ruolo dell’imam Bassam Ayachi nel reclutare i giovani di Molenbeek (Bassam, ora in Siria, fu arrestato a Bari nel 2008 e condannato a otto anni di reclusione, ma venne scarcerato nel 2012, ndr). Quali altre figure sono state responsabili della radicalizzazione islamica?

C’è un vero e proprio network. Si tratta di persone provenienti dall’ambiente religioso: strumentalizzano l’Islam per influenzare e reclutare la gente. Convincono i giovani a non essere solo dei criminali, ma dei “criminali islamici”.

Come pensi si stiano muovendo i servizi segreti belgi oggi?

Negli ultimi tempi hanno fatto un gran lavoro. Ma avrebbero dovuto farlo dieci anni fa.