La nuova speranza per rivoluzionare il mondo dei trapianti di organi, minimizzando il rischio di rigetto da parte dei pazienti, potrebbe arrivare da una pecora. Quella dentro al cui organismo è stato impiantato per la prima volta un embrione animale contenente una piccolissima percentuale di cellule umane. A dare l’annuncio della riuscita dell’esperimento, durato soltanto 28 giorni, è stato Pablo Ross, uno dei membri del team di ricerca dell’Università della California, nel corso del meeting annuale dell’Associazione americana per l’avanzamento della scienza appena chiusosi ad Austin.
Le “chimere” – «Oggi persino gli organi valutati come più adatti al trapianto, a meno che non vengano da gemelli identici, non durano a lungo perché il sistema immunitario li attacca di continuo», ha raccontato Ross al Guardian, che ha dato per primo la notizia. Per ovviare al problema del rigetto, il gruppo californiano ha puntato le sue carte sulla ricerca sulle “chimere“, come vengono chiamati in biologia gli embrioni le cui cellule derivano da due diverse uova fecondate. Un anno fa, gli scienziati avevano annunciato il primo risultato, l’introduzione di cellule staminali umane all’interno di embrioni di maiali. Ora l’operazione è riuscita anche su un embrione di pecora: nei 28 giorni di crescita delle cellule attualmente consentita dalle norme americane, 21 dei quali nell’utero della madre, le cellule umane si sono riprodotte. Per i promotori della ricerca, questo potrebbe aprire la strada alla “fabbricazione” di organi completi perfettamente compatibili con il richiedente, prelevando dal paziente stesso le cellule necessarie alla riproduzione all’interno dell’embrione animale.
Una cellula su 10mila – Per trarre delle conseguenze convincenti dal nuovo esperimento, sarebbe necessario un tempo di osservazione prolungato, anche fino a 70 giorni, ha ammesso un altro dei membri della squadra, Hiro Nakauchi. Ma la nuova applicazione sulle pecore viene considerata un passo in avanti significativo per almeno due ragioni: il numero di cellule umane riprodottesi in proporzione a quelle “ospiti” (una su diecimila contro una su centomila nell’esperimento sul maiale) e quello degli embrioni che è necessario coltivare con la procedura di fecondazione in vitro (ne bastano quattro per esperimento, contro i 50 per il maiale). Entrambe le specie vengono comunque considerate promettenti per via della forma di molti organi particolarmente vicina a quella degli umani.
I dubbi – Per Nakauchi potranno servire «cinque o dieci anni, ma alla fine riusciremo a far sì che gli umani possano ricevere organi cresciuti dentro animali». Ma non tutti gli scienziati sembrano convinti della svolta: interpellato dal Guardian, Bruce Whitelaw del Roslin Institute, il centro scozzese dove venne clonata nel 1996 la pecora Dolly, ha raffreddato gli entusiasmi, sottolineando come ci sia ancora «molta strada da percorrere» prima che tale risultato sia possibile. Per rendere realizzabili le applicazioni mediche, oltre a dover elevare il numero di cellule umane riprodotte, i ricercatori dovranno risolvere seri problemi: primo fra tutti il rischio di contaminazione da virus presenti nel Dna animale alle cellule ospitate.
Le questioni etiche – Se ancora non si sono levate voci di commento sul caso dal mondo della Chiesa, altri osservatori già puntano il dito inoltre sulle implicazioni etiche della ricerca su embrioni misti uomo-animale. Dubbi che sembrano serpeggiare anche tra gli scienziati italiani. «Il Comitato nazionale di bioetica – ha commentato al Corriere della Sera Bruno Dallapiccola, direttore scientifico dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma – si è già occupato della questione delle chimere qualche anno fa: il nostro parere è stato molto critico e le perplessità rimangono, almeno finché questo studio non verrà pubblicato su una rivista scientifica e potremo vederlo nel dettaglio».