L’88% dei 27.213 cittadini europei intervistati ritiene che l’Unione europea debba avere maggiore influenza sui temi sociali, dall’occupazione alla sanità, dall’istruzione alle pari opportunità. È a partire da questo sondaggio condotto da Eurobarometro che prende il via la conferenza incentrata sul welfare europeo, condotta dal Centro di documentazione europea (Cde) dell’Università Statale di Milano, nell’ambito del progetto più ampio della Conferenza sul futuro dell’Europa. «Ma, se quasi nove cittadini su dieci auspicano una maggiore influenza della Ue su questi temi, in pochi sono davvero a conoscenza delle azioni che hanno un impatto sulla loro vita quotidiana», afferma Massimo Gaudina, rappresentante della Commissione europea a Milano. Ed è proprio a questa considerazione che nella conferenza, in cui partecipano, oltre a Gaudina, anche Alessandra Lang, responsabile scientifico del Cde, e Ilaria Madama, docente di Scienze politiche alla Statale, si è cercato di trovare una soluzione.

Competenze insufficienti – «In quanto a obiettivi per la realizzazione di una società giusta e inclusiva, l’Unione europea è sicuramente leader. Il problema è che c’è un gap notevole tra programmi e miglioramenti effettivi sulla vita dei cittadini», puntualizza Eliano Rossi, giornalista che modera la discussione. «Fin dall’insediamento della Commissione (nel dicembre 2019, ndr), la presidentessa Von der Leyen ha posto particolare attenzione a queste tematiche», risponde Massimo Gaudina. «A gennaio 2020, la disoccupazione giovanile oscillava tra il 4% al 62%, c’era e c’è una differenza di salario media del 16% tra uomini e donne, solo il 50% delle persone con disabilità riescono a trovare lavoro e un bambino su 4 era a rischio di povertà o di esclusione sociale». E cosa è stato fatto per migliorare la situazione? «Nello stesso anno, complice anche la pandemia, abbiamo creato il Sure, una sorta di fondo di disoccupazione, di cui l’Italia è principale beneficiaria con 20 miliardi. Ma già nel 2017, la precedente Commissione aveva istituito il “Pilastro dei diritti sociali”, documento che si pone 20 obiettivi, 20 problemi da risolvere nella vita degli europei», prosegue Gaudina, riconoscendo però lo scarso impatto che le istituzioni Ue hanno sulla vita dei suoi cittadini: «Le competenze “sociali” sono scarse, non abbiamo forte influenza. È da dire anche che ci sono tanti atti legislativi, progetti sul territorio, finanziamenti che non sono arrivati alla ribalta dei media perché nel dibattito pubblico emerge sempre l’emergenza, l’attualità».

Pertanto, come rendere concreto il pilastro dei diritti sociali, andando oltre a meri riconoscimenti e declamazioni di obiettivi e principi, è una delle sfide più ardue cui si trova davanti l’Unione europea. E che avrà un contributo determinante sulla ripresa post-pandemia, che rischia di accentuare diseguaglianze e lasciare indietro le componenti più fragili della società di molti Stati membri, donne e giovani in primis. «Di certo lo shock esogeno della pandemia ha contribuito ad accendere l’interesse nel dibattito pubblico, come dimostra il sondaggio di Eurobarometro», sottolinea la docente Ilaria Madama. «Occorre tuttavia fare due osservazioni più critiche, la prima sul deficit di visibilità: per quanto riguarda il Pilastro sociale dei diritti, per esempio, il 71% degli europei non ne ha mai sentito parlare, il 21% non sa di cosa si tratti di preciso. La seconda, conseguenza diretta della prima, è la debolezza della dimensione simbolica, che ha di fatto contribuito alla spirale di delegittimazione vissuta dalla stessa Ue. Non ha ostacolato o controbilanciato il discorso euroscettico, non ha sfruttato gli interventi positivi, limitati e insufficienti, ma altresì non insignificanti rispetto alle limitate capacità della Ue». La vera sfida, conclude, resta quella di tradurre in pratica alcuni degli obiettivi e degli impegni assunti a livello sovranazionale. E questo richiede uno sforzo di immaginazione, rispetto a cosa fare e a quanto la Ue sia rilevante nell’agire in questi frangenti. Osservazione su cui anche Gaudina concorda: «Si tratta di un nervo scoperto, bisogna permettere a tutte queste opportunità di dispiegarsi e arrivare al destinatario finale, come successo per esempio con l’Erasmus».

Critiche e rimedi – Di tutti i settori in cui si è sentita la mancanza di un’azione incisiva europea, quello sanitario è il più evidente. Per questo, Von der Leyen il 25 ottobre scorso, in occasione del World Health Summit, aveva lanciato l’iniziativa di un’Unione sanitaria europea e della creazione dell’Hera (Autorità europea per la preparazione e la risposta alle emergenze sanitarie), un’agenzia sul modello della statunitense Barda (Biomedical advanced research and development) che abbia la facoltà di coordinare la ricerca e la produzione di vaccini e di monitorare le emergenze sanitarie e la risposta dei vari sistemi sanitari nazionali. «Nel breve periodo è stato creato un progetto pilota che sta mettendo insieme agenzie pubbliche e imprese private per i vaccini cosiddetti di seconda generazione, efficaci contro qualsiasi variante», aggiunge Gaudina. «Sarà questo il ruolo principale di Hera, che si affiancherà all’Ema (Agenzia europea del farmaco, ndr) e che sarà fondamentale negli anni a venire».

Tuttavia, nonostante questi progetti e una risposta alla pandemia giudicata, dopo un primo momento di impasse, efficace su più fronti, a partire dal Recovery Plan, la Commissione europea ha ricevuto molte critiche. «Cosa sarebbe successo se durante la pandemia la Ue non avesse coordinato la distribuzione dei vaccini?», ha chiesto Eliano Rossi. «Abbiamo sentito una montagna di bufale – ha detto Gaudina – Qui dobbiamo fare ricorso alla psicanalisi, per cercare di capire il senso di queste critiche: senza i ritardi di AstraZeneca, saremmo andati al pari di Regno Unito e Stati Uniti, ma siamo comunque andati meglio di Cina e Russia, che avevano i vaccini fatti in casa. Chi sostiene che la scelta del Regno Unito si sia rivelata vincente per come è andata la campagna vaccinale, non tiene conto del fatto che hanno scelto una procedura d’emergenza che nessuno, tra gli Stati membri Ue, ha voluto usare». Le trattative con le case farmaceutiche le ha condotte l’Ema, che gli Stati membri non hanno voluto dotare della facoltà di attivare questa procedura di emergenza, di cui si sarebbero potuti avvalere nel caso avessero condotto le trattative per conto proprio, cosa che lo stesso Gaudina ritiene insensata. Cosa sarebbe successo, comunque, se i 27 fossero andati in ordine sparso? «I Paesi con potere contrattuale più forte si sarebbero accaparrati più dosi di altri e l’immunità di gregge non sarebbe raggiungibile», osserva il rappresentante della Commissione, che a chi gli chiede spiegazioni sui ritardi nella stipulazione dei contratti risponde: «Il negoziato è stato ottimo». L’Europa ha tirato sul prezzo? «Bufala con il bacio accademico. Il prezzo di AstraZeneca, di cui si parlava a inizio anno, è fisso in tutto il mondo: Oxford ha fatto parte alla joint venture a patto che il prezzo fosse quello di costo, il che ovviamente non comporta alcuna negoziazione. La Commissione però ha comunque una causa in corso con l’azienda, ché non c’era scritto da nessuna parte che questa avrebbe dovuto dare priorità a un altro Paese. Erano stati pattuiti 80 milioni di dosi, e soltanto un terzo è stato fornito. Adesso sappiamo molto di più, sappiamo quali sono le case più affidabili, e questo ci permetti di fare le giuste scelte».