Alcuni appartenenti alla comunità charedì. Fonte Wikimedia Commons

«Cos’è più importante? Andare ai funerali e studiare la Torah o rimanere vivi?» La domanda che l’attivista ebrea ultra-ortodossa Esti Shushan rivolge alla sua comunità riassume uno dei temi più spinosi che Israele sta affrontando in questi giorni: gli charedì, la comunità ebraica conservatrice cui appartiene il 12% della popolazione ma che rappresenta quasi un terzo (28%) dei contagi totali da coronavirus.

Una comunità chiusa – Gli ebrei ultraortodossi, noti per seguire un’interpretazione rigida e letterale della dottrina religiosa ebraica, nutrono grande diffidenza per scienza, medicina e tecnologia: per questo motivo anche in pieno lockdown non hanno smesso di partecipare in massa a matrimoni, funerali e festività religiose, rendendosi quindi estremamente vulnerabili al virus. Israele è stato sempre protettivo nei confronti della comunità, garantendo numerosi sussidi e esentando i giovani dalla leva obbligatoria, ma il recente aumento dei contagi ha spaventato il governo di Benjamin Netanyahu, che tramite il ministero della Salute ha istituito un dipartimento per sensibilizzare le comunità charedì in materia di Covid-19, con risultati però insoddisfacenti. La questione è soprattutto culturale: la vita degli ultraortodossi è comunitaria, nella quale si è spesso a contatto con altre persone e dove famiglie molto numerose vivono in spazi ristretti; inoltre, le scuole charedì preparano quasi esclusivamente allo studio dei testi religiosi e lasciano poco spazio alle materie scientifiche: molti ultraortodossi non possiedono così gli strumenti necessari a comprendere l’emergenza sanitaria e le restrizioni per contrastarla.

Autorità – A capo della società charedì siedono i rabbini, che hanno un peso enorme e sono considerati autorità anche in materia sanitaria: uno dei più importanti, Chaim Kanievsky, intervistato lo scorso aprile, alla domanda su cosa possono fare i fedeli per combattere il Covid rispose «Dovrebbero studiare il Talmud». Non tutti però la pensano come Kanievsky: molti rabbini si sono dichiarati favorevoli ai vaccini, esortando i fedeli a indossare le mascherine e rispettare le normative del governo. Ma ancora troppi fedeli guardano con diffidenza alla medicina, anche a costo della vita: il New York Times racconta la storia di Rivka Wertheimer, 74enne ultraortodossa che nonostante versasse in condizioni critiche causa Covid, non voleva consentire agli infermieri di portarla in ospedale senza prima aver ricevuto il permesso del suo rabbino di fiducia: «tutti sanno che l’intelletto umano ha un limite», ha dichiarato uno dei figli della donna, «ma quando chiediamo qualcosa ad un rabbino stiamo chiedendo a Dio cosa vuole da noi».