Soldati americani scortano prigionieri iracheni (21 marzo 2003)

Il sospetto della produzione di armi di distruzione di massa, il presunto appoggio al terrorismo islamista, le mire sulle riserve petrolifere del vicino Kuwait e la soppressione dei cittadini da parte di una dittatura sanguinaria. Vent’anni fa gli Stati Uniti guidavano una coalizione internazionale all’invasione dell’Iraq di Saddam Hussein, il dittatore, leader del partito Ba’th alla guida del Paese a maggioranza sciita dal 1979. Le ragioni addotte per giustificare la guerra divisero l’opinione pubblica. Le polemiche sono continuate negli anni, tra lanci di scarpe a presidenti a stelle e strisce e i rimpianti del popolo iracheno.

Governo nazionalista e autoritario – Hussein, classe 1937 e membro di spicco (e poi segretario) della fazione irachena del Partito Ba’th, il Partito del risorgimento arabo socialista, fu vicepresidente dal 1968 al 1979. In questi 11 anni, oltre a creare un corpo di forze di sicurezza speciali, concentrò i proprio sforzi sull’economia. Le banche vennero nazionalizzate, così come il settore petrolifero. In particolare, nel 1972 venne nazionalizzata l’Iraq Petroleum Company, la compagnia a carattere monopolistico esistente dagli anni Venti. Contestualmente, Hussein iniziò una lotta alla presenza di imprese occidentali in Iraq. Oltre che per un accentramento dell’economia nelle mani dello Stato, il governo di Hussein è ricordato per ripetute violazione dei diritti umani, dovute in particolare alla soppressioni di movimenti sciiti e curdi che cercavano di ottenere maggiore riconoscimento o di rovesciare il governo.

Dal pragmatismo alla Guerra del golfo – Nel corso degli anni Ottanta i rapporti tra Stati Uniti (e relativi alleati) e Iraq furono improntati a un deciso pragmatismo. Nonostante, infatti, fosse vicino all’Unione Sovietica, il regime di Hussein era visto come un argine a una diffusione dell’islamismo iraniano. I due Paesi arabi, profondamente divisi a causa della diversa valutazione del ruolo da assegnare alla religione nella gestione dello Stato – l’Iran era ed è una teocrazia, l’Iraq uno Stato laico – furono impegnati in una sanguinosa guerra dal 1980 al 1988. Il conflitto fu lungi dall’essere risolutivo e vide formalmente vincitore il regime di Hussein, ma il costo economico e di vite umane fu elevato da entrambe le parti e mise in ulteriormente in ginocchio l’economia dell’Iraq, già provata da una forte inflazione e dalla crisi del settore bancario. Durante la guerra, l’Occidente sostenne Hussein, ma quando questi nel 1990 invase il vicino Kuwait l’Onu si oppose e gli Stati Uniti guidarono una coalizione di 35 Stati che nel giro di sei mesi liberò lo Stato. Tra le cause dell’invasione irachena vi erano le mire sulle riserve petrolifere del Kuwait, fondamentali per una ripresa economica dell’Iraq dopo il dissesto dovuto alle conseguenze della guerra con l’Iran. L’operazione dell’Onu si concluse con una ritirata dell’esercito invasore, ma il regime di Hussein non venne rovesciato per evitare di creare un ulteriore fattore di destabilizzazione nell’area mediorientale.

Dick Cheney (via Flickr)

 I neocons e le ragione della guerra – Negli anni Novanta l’amministrazione statunitense, sia con George Bush padre sia con Bill Clinton, operò una politica di contenimento basata sul mantenimento delle sanzioni economiche all’Iraq e sulla distruzione delle armi di distruzione di massa dell’esercito iracheno. Verso la fine del decennio, tuttavia, i cosiddetti intellettuali neocons (neoconservatori), vicini al Partito repubblicano, cominciarono a premere per un’invasione dell’Iraq. Gli attentati dell’11 settembre 2001 e il contestuale inizio della «guerra al terrorismo» sancito da George W. Bush non fecero che inasprire le posizioni verso il regime di Hussein. Tra i sostenitori di un’azione militare contro l’Iraq vi furono, in particolare, tre personaggi di spicco dell’amministrazione statunitense: lo stesso Bush, il vicepresidente Dick Cheney e il Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld. Le ragioni addotte per giustificare la guerra furono varie: dalla lotta al terrorismo alla creazione di uno Stato democratico in Iraq al posto del regime autoritario di Hussein, dal contrasto alle violazioni dei diritti umani alla possibilità di creare nell’area nuove basi da cui minacciare Siria e Iran. La più importante, però, fu un report dell’intelligence in cui si affermava che l’Iraq, oltre ad aver sistematicamente violato la no-fly zone creata dopo la prima Guerra del golfo, aveva anche ripreso la produzione di armi di distruzione di massa.

Le posizione critiche – Nel dibattito pubblico non mancò chi fu contrario all’invasione, denunciando l’infondatezza dei sospetti verso il regime di Hussein e additando l’operazione come frutto dell’imperialismo di Bush e degli Stati Uniti, che si sarebbero sentiti minacciati da un punto di vista economico a causa delle mire che l’Iraq aveva mantenuto sulle riserve petrolifere del Kuwait. La Repubblica irachena, infatti, avrebbe potuto superare gli stessi USA nella produzione giornaliera di barili di “oro nero”, comportando un danno al sistema economico di tutto il mondo occidentale.

La guerra – Alla fine vinse la volontà di Bush e dei repubblicani, anche se non mancò chi tra i democratici si espresse favorevolmente. Tra questi, l’attuale Presidente USA Joe Biden, che chiosò: «Saddam è un estremo pericolo». L’invasione incominciò la mattina del 20 marzo 2003 ad opera di una coalizione multinazionale guidata dagli Stati Uniti. L’avanzata delle truppe di terra, preceduta da pesanti bombardamenti su tutto il territorio iracheno, fu rapida e già il 1° maggio Bush potè dichiarare concluse le operazioni militari, anche se a causa di una inefficiente gestione postbellica nelle settimane successive ci fu un aumento di della violenza. Come ha ricordato in un’intervista concessa a La Repubblica dall’ex direttore della CIA David Petraeus, gli occidentali furono accolti «come liberatori». Simbolo della guerra e della protesta contro Hussein, fu, in questo senso, l’abbattimento della statua del dittatore che sorgeva innpiazza al Ferdous, cioe’ la piazza “del Posto più alto in paradiso” a Baghdad. La scultura, fissata su un imponente piedistallo, fu fatta cadere già il 9 aprile, segno dell’impotenza del regime di fronte all’avanzata occidentale.

Le conseguenze – Le conseguenze della guerra non furono esattamente quelle sperate e non mancarono le polemiche. Le forze occidentali, innanzitutto, incontrarono una forte resistenza da parte di sostenitori del regime e di gruppi di fondamentalisti islamici vicini ad Al-Qaeda e successivamente diedero vita all’Isis. Secondo alcuni commentatori, la nascita del sedicente Stato islamico e la conseguente destabilizzazione dell’area sarebbe pertanto imputabile all’azione degli Statu Uniti. A questo proposito, il generale Petraeus ha respinto le accuse: «Sono state le azioni intraprese alla fine del dicembre 2011 dalla premier sciita Nouri al-Maliki a infiammare la popolazione sunnita», scatenando proteste che hanno portato al rafforzamento dei gruppi poi costituitisi nell’Isis. Per quanto riguarda la politica interna dell’Iraq, il Partito Ba’th fu sciolto e nel 2005 si tennero per la prima volta elezioni democratiche, che si tennero in un clima di violenza e guerriglia che gli occidentali faticarono a contrastare. In generale, il tentativo di instaurare la democrazia in Iraq ha creato una situazione difficile da governare. Con la caduta del regime di Hussein, infatti, le fratture religiose ed etniche latenti nella società esplosero. A questo proposito è emblematica la contrapposizione tra le parole di Petraeus e la voce, riportata da Andrea Nicastro sul Corriere della Sera, di Mazin al-Eshaiker, un economista candidato a diventare primo ministro: «Nessuno amava Saddam, ma questi vent’anni sono riusciti a farlo rimpiangere». Nel mirino dei critici degli USA finì, oltre che la gestione postbellica, il ritiro della truppe statunitensi nel dicembre 2011, che avrebbe aumentato il livello di tensione nell’area. Secondo Petraeus, però, «i risultati raggiunti durante la Surge (l’aumento di truppe contro la guerriglia irachena, ndr) sono stati mantenuti e persino aumentati nei tre anni successivi». In generale, il simbolo dei contrastanti giudizi sull’operazione guidata dagli USA è il lancio delle scarpe che un giornalista iracheno, Muntazar al-Zaydi, fece contro Bush. Durante una conferenza stampa che il Presidente stava tenendo congiuntamente al primo ministro Nouri al-Maliki a Baghdad il 14 dicembre 2008, al-Zaydi scagliò entrambe le sue scarpe verso Bush. Con la prima gridò: «Questo è un bacio d’addio da parte del popolo iracheno, cane!», mentre con la seconda: «Questo è per le vedove, gli orfani e tutti quelli che sono stati uccisi in Iraq!».

La caduta del dittatore – Per quanto riguarda le vicende personali di Saddam Hussein, il dittatore fu catturato nel dicembre 2003 e processato, con altri sette imputati, nell’ottobre 2005 da parte di un tribunale speciale iracheno con l’accusa di crimini contro l’umanità. La sentenza, arrivata nel novembre 2006, fu la condanna a morte per impiccagione, nonostante avesse chiesto di essere fucilato. La decisione spaccò l’opinione pubblica occidentale: Stati Uniti e Regno Unito furono soddisfatti, mentre l’Unione Europea criticò la decisione, ribadendo la propria contrarietà alla pena di morte in ogni sua forma. L’esecuzione del dittatore avvenne il 30 dicembre 2006 all’interno di un centro che il regime usava per torture i dissidenti.