Cosa hanno in comune un deputato del Partito Democratico (Stefano Ceccanti), un europarlamentare cristiano-democratico e un primo ministro liberale? Hanno tutti invocato l’uscita di Polonia (i primi due) e Ungheria (l’ultimo) dall’Unione Europea. Ma perché invocare un allontanamento volontario e non escludere direttamente i due Paesi? Perché a impedire quest’ultima opzione è il trattato sull’Unione Europea, firmato a Lisbona il 13 dicembre 2007. E questo accordo permette di escludere uno Stato dal più grande Mercato Comune al mondo solo se tutti gli altri sono d’accordo. 

I motivi dello scontro – L’ultimo scontro riguarda la camera disciplinare della Corte suprema polacca. Dopo la riforma del sistema giudiziario, la Commissione Europea ha chiesto di sospendere, con una misura ad interim, i suoi provvedimenti. Secondo l’esecutivo guidato da Ursula Von Der Leyen, l’organo disciplinare «mina l’indipendenza dei giudici» con iniziative arbitrarie e mirate contro magistrati non graditi alla maggioranza di governo. I giudici di Lussemburgo hanno accolto le istanze della Commissione: «Le considerazioni in fatto e in diritto giustificano l’adozione delle misure provvisorie sollecitate». Ma nello stesso giorno la Corte costituzionale polacca ha stabilito che Varsavia non deve rispettare le decisioni della Corte di giustizia dell’Ue sulla riforma. Secondo i magistrati locali, il regolamento che permette alla Corte Europea di pronunciarsi su «sistemi, principi e procedure» degli ordinamenti nazionali non è «in linea con la Costituzione del Paese».

La spaccatura sugli Lgbtiqia+ – Lo scontro sulla magistratura è solo uno dei fronti aperti. Oggi, 15 luglio, la Commissione ha aperto due procedure d’infrazione contro Polonia e Ungheria. La prima è dovuta alle zone libere da Lgbtiqia+, autoproclamate da un centinaio di piccole regioni e città polacche. Con l’Ungheria lo scontro è aperto per la legge che vieta ai minorenni l’accesso a contenuti che promuovono o ritraggono la cosiddetta «divergenza dall’identità personale corrispondente al sesso alla nascita, al cambiamento di sesso o all’omosessualità». A inizio luglio si era anche parlato di uno stop all’approvazione del piano di ripresa e resilienza dell’Ungheria: palazzo Berlaymont potrebbe accusare infatti il primo ministro Viktor Orban di gestire in modo clientelare in fondi europei.

La provocazione di Rutte – Proprio quest’accusa aveva portato all’introduzione della clausola sullo stato di diritto che potrebbe bloccare in corsa i finanziamenti del Next Generation Eu. Una misura fortemente voluta da Mark Rutte. All’epoca, il primo ministro olandese aveva risposto alle accuse di un deputato verde chiedendo: «Puoi creare un budget attraverso un accordo intergovernativo o puoi fondare un’Unione Europea senza Polonia e Ungheria»? La domanda retorica mette in evidenza «una sottile consapevolezza delle difficoltà legali che la questione dell’esclusione dei due Paesi dall’Ue solleva». A scriverlo è stato Tom Theuns, professore associato in Scienze Politiche all’università di Leiden (Olanda). 

Il problema dell’articolo 7 – L’articolo 7 del trattato sull’Unione Europea dice come agire in caso di «un evidente rischio di violazione grave da parte di uno Stato membro dei valori di cui all’articolo 2» (valori quali la dignità umana o «i diritti delle persone appartenenti a minoranze»). Ipotesi che si verifica però solo dopo il fallimento del dialogo con lo Stato sotto accusa. Se le parole non portano a nulla, dopo l’approvazione del Parlamento Europeo, il Consiglio Europeo può constatare ufficialmente che esiste questo rischio. A fare questo passo devono essere i quattro quinti degli Stati membri. Tutto fatto, dunque? No. Per attestare «l’esistenza di una violazione grave e persistente» – e non solo il rischio di questa – è richiesta l’unanimità del Consiglio Europeo. Solo questa può portare alla sospensione di altri diritti dello Stato oggetto del provvedimento. Per evitarla, è sufficiente che due Stati si proteggano a vicenda. Il cinico Guicciardini chioserebbe: «Chi governa a caso si ritruova alla fine a caso». Ma forse questa possibilità non è stata prevista quando sono stati scritti i trattati.

La soluzione (?) dell’articolo 50 – Del resto, fino a 15 anni fa non era nemmeno prevista la possibilità di uscire volontariamente dall’Unione Europea. L’articolo 50 che ha regolato la Brexit fu introdotto solo con il Trattato di Lisbona. Qualcuno lo vede però come una soluzione al problema ungaro-polacco. Secondo il professor Theuns, i Paesi potrebbero sfruttarlo per uscire dall’Unione e per poi creare una nuova organizzazione sopranazionale. Invece, secondo un altro professore dell’università di Leiden, Christophe Hillion, la soluzione potrebbe essere più semplice. Sostiene Hillion: Polonia e Ungheria continuano a sfidare i trattati? In un certo senso, «stanno esprimendo la loro rispettiva intenzione di non applicarli più». E quindi stanno implicitamente dichiarando di non voler far più parte dell’Unione. Un’interpretazione che presenta almeno due punti deboli: bisogna dimostrare con una sentenza definitiva che Polonia e Ungheria violano i trattati e, in secondo luogo, che questo comportamento rappresenta una richiesta implicita di uscire dall’Ue.

I problemi geopolitici – I problemi non sono però solo legali, ma anche geopolitici. Come ha spiegato Luca Misculin su Il Post, abbandonare Polonia e Ungheria peggiorerebbe le condizioni di vita di milioni di cittadini. E vorrebbe dire anche far sentire traditi i partiti di opposizione di questi Paesi. Anche se lo si farebbe in nome della democrazia. Un nome su tutti? Donald Tusk, ex presidente del Consiglio Europeo, che da qualche settimana è tornato leader in carica dell’opposizione polacca. Inoltre, Ungheria e Polonia potrebbero entrare sotto la sfera di influenza di altri Paesi, come la Cina che sta già facendo affari con il primo ministro Orban.