Salvatore Garzillo, Alfredo Bosco e Andrea Sceresini. Sono i nomi di tre degli otto giornalisti che, attualmente, sono stati fermati dalle forze ucraine. Era già successo a Lorenzo Giroffi, freelance attivo nella documentazione del conflitto in Donbass dal 2014, di non riuscire più a rientrare in Ucraina da aprile dello scorso anno. Ora, invece, è il turno di Salvatore Garzillo, fermato qualche giorno fa al confine polacco senza nessuna motivazione, e di Bosco e Sceresini, ai quali sono stati tolti gli accrediti militari, cioè i documenti che permettono ai giornalisti di spostarsi liberamente nel Paese e di poter andare nelle zone in cui c’è il conflitto.
Andrea Sceresini, giornalista freelance di inchieste e reportage che collabora con le principali testate italiane, è la quarta volta che torna nel Donbass per raccontare la guerra. Ora è fermo e non può lavorare come altri suoi colleghi: «Noi siamo qui e non vogliamo andarcene. Dobbiamo essere tutelati e poter fare liberamente il nostro lavoro».

Come vi hanno tolto il permesso di lavorare?
«Io e Alfredo Bosco abbiamo ricevuto una mail mentre tornavamo dal fronte di Bakhmut. Questa notificava che ci avevano sospeso gli accrediti e che dovevamo aspettare un interrogatorio con l’Sbu, i servizi di sicurezza ucraini. È dal 7 febbraio che non possiamo più fare niente».

Con quali accuse e motivazioni vi hanno tolto l’accredito?
«Le motivazioni ufficiali non ci sono. Girano solo voci su chat e gruppi secondo le quali io e Alfredo siamo delle spie russe. La Farnesina ci ha spiegato che la ragione è che, nel 2014 e nel 2015, siamo stati nel Donbass a raccontare la guerra anche dalla parte separatista e non solo dalla parte delle forze governative ucraine. Ma noi abbiamo fatto solo il nostro lavoro. Il giornalismo racconta tutte le facce del conflitto e io non ho fatto mai propaganda russa, semmai il contrario. Non ha senso che venga imposta questa linea secondo la quale chi va di là (in Russia, ndr) automaticamente è un nemico. Se le forze ucraine iniziano a fare così l’unico giornalismo che ci sarà, sarà quello del copia incolla dei comunicati stampa ufficiali che non è giornalismo».

L’Ambasciata italiana vi sta aiutando?
«Sta facendo pressioni, così come la Farnesina, sul governo ucraino ma nessuno ci ha ancora fatto sapere niente. Ci stanno seguendo comunque, anche l’Ordine dei giornalisti e la Fnsi (Federazione nazionale della stampa italiana) si sono fatti sentire».

Perché il fermo è arrivato proprio adesso?
«Non lo so e non so nemmeno perché hanno fermato Lorenzo Giroffi l’anno scorso. Siamo arrivati insieme a febbraio 2022 e io sono passato, mentre lui no. Non ce lo spiega nessuno. Però se si crea questo clima in cui colpiscono uno a caso, “uno per educarne cento”, il risultato prodotto sarà quelli di giornalisti o troppo schierati o che avranno paura di fare un passo in più, di andare oltre i comunicati stampa ufficiali. Ripeto: non è questo il lavoro del giornalista».

Per quanto riguarda l’interrogatorio, non c’è una data ancora?
«Ogni giorno aspetto una loro chiamata, ma niente. Sono passati 15 giorni e nessuno mi ha mai contattato. Io e Alfredo abbiamo chiesto mille volte di fare questo interrogatorio, non abbiamo nulla da nascondere. Bisogna parlare con i servizi, capire qual è il problema e risolverlo. Abbiamo scritto una mail in ucraino all’Sbu, abbiamo mandato un avvocato ucraino a parlare con loro ma di risposte non ce ne sono state. A livello psicologico questa attesa sta diventano pesante».

Ora ti trovi a Kiev, lontano da posti di blocco, puoi circolare liberamente ma non lavorare. Qual è la tua paura al momento?
«La cosa peggiore che può succedere è che ci mandino via dal Paese. Abbiamo dei visti che prima o poi scadranno, ce ne andremo via e abbiamo paura di non potere più entrare».