Un uomo palestinese piange dopo il raid israeliano a Jenin (Jaafar Ashtiyeh/AFP)

Più di venti vittime in cinque giorni. Un bilancio sanguinoso quello delle stragi che hanno colpito Jenin, Gerusalemme e altre città e villaggi in Israele e Palestina. Un ciclo di violenze che ha avuto inizio giovedì 26 gennaio quando le Israeli Defence Forces (IDF), l’esercito israeliano, hanno attaccato vari obiettivi militari a Jenin, Cisgiordania, uccidendo 9 palestinesi in un’operazione successivamente definita “antiterroristica” dal governo di Benjamin Netanyahu. Era dal 2005 che non si registrava una strage così sanguinosa in Cisgiordania. La risposta palestinese non ha tardato ad arrivare: la sera di venerdì 27 gennaio, nel quartiere periferico di Gerusalemme Neve Yaakov, un giovane palestinese ha aperto il fuoco di fronte a una sinagoga, provocando otto vittime e ferendone più di 20. Kheiri Alkam, autore della strage, è stato ucciso dalla polizia israeliana poco dopo, mentre tentava la fuga. Anche in questo caso, era dal 2008 che non si verificava un massacro del genere da parte di un palestinese.

Weekend di violenza – Il 26 gennaio, alle sette di mattina ora locale, l’esercito israeliano ha avviato un’operazione per neutralizzare una cellula terroristica della Jihad Islamica nel campo profughi di Jenin: l’attacco ha causato la morte di nove palestinesi, a cui si aggiungono 20 feriti. Nello stesso momento nella città di al-Ram, a nord di Gerusalemme, un palestinese è stato ucciso dalla polizia israeliana durante un conflitto a fuoco.
Sono state ore di tensione quelle successive al blitz: dalla Striscia di Gaza sono partiti sette missili, neutralizzati per la maggior parte dal sistema antimissilistico Iron Dome e successivamente rivendicati dalla Jihad Islamica come ‘avvertimento’. Alle prime luci dell’alba del 27 gennaio, un raid aereo israeliano ha colpito un deposito logistico di Hamas nella parte centrale dell’enclave palestinese.

La polizia israeliana e il personale medico coprono i cadaveri della strage della sinagoga (AP)

La sera stessa, il giovane Kheiri Alkam, palestinese non appartenente a fazioni politiche riconosciute, ha aperto il fuoco di fronte una sinagoga a Neve Yakoov, uccidendo otto persone e ferendone più di 20. Il giorno successivo a distanza di poche ore, a Gerusalemme, un tredicenne palestinese ha sparato a due cittadini israeliani, ferendoli gravemente.
Secondo quanto riferito dall’agenzia stampa Wafa, poi, tra 29 e 30 gennaio gruppi di coloni israeliani hanno attaccato vari villaggi attorno alla città di Ramallah, sede del governo palestinese, rivendicando il gesto come spedizioni punitive per la strage avvenuta alla sinagoga di Neve Yakoov.

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Il bilancio delle vittime e dei feriti palestinesi nel 2022 (Fonte: B’Tsalem)

Jenin, città di sangue – Nel 2022 i raid israeliani in Cisgiordania si sono intensificati: secondo l’Ong per i diritti umani israeliana B’Tsalem, sono quasi 200 le vittime palestinesi degli attacchi militari nel West Bank. Il recente raid di Jenin, tuttavia, ha ricordato per modalità e forze impiegate le scene cui si è assistito l’ultima volta nella città nel 2002, durante la seconda Intifada palestinese. Allora, come oggi, Jenin è il centro politico in cui si riuniscono tutte le forze armate palestinesi di tutte le fazioni, dalle frange religiose della Jihad Islamica a quelle meno radicali come Fatah. Nel 2002, non lontano dal luogo del massacro del 26 gennaio, nell’arco di una settimana si consumarono scontri che portarono alla morte di 52 combattenti palestinesi e 23 soldati israeliani.

Instabilità – Un copione che riporta alla memoria il clima della seconda Intifada, scoppiata a Gerusalemme il 28 settembre 2000 a seguito della visita alla Spianata delle Moschee di Ariel Sharon, allora capo di Likud (attuale partito del premier israeliano Benjamin Netanyahu). A inizio gennaio 2023, il leader di Sionismo Religioso e Ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir ha replicato lo stesso gesto a margine dell’insediamento del nuovo governo di ‘Bibi’ Netanyahu. Un messaggio chiaro alla comunità arabo-israeliana e palestinese, una dimostrazione di forza della fazione politico-religiosa ortodossa che fa parte della maggioranza di governo a Gerusalemme e che ha spostato decisamente a destra l’assetto politico israeliano.
E se il governo attualmente è sotto attacco da parte dell’opinione pubblica per il recente annuncio della riforma del sistema giudiziario proposta dal neo ministro della Giustizia Yari Levin, la linea di Netanyahu e Ben Gvir sulla questione palestinese è ben chiara: «Voglio le armi nelle strade, voglio che i cittadini israeliani possano potersi difendere», ha dichiarato il leader di Sionismo Religioso dopo la sparatoria che ha causato due feriti sabato 28 gennaio. Il tema della sicurezza sarà nevralgico per ottenere la fiducia nel corso delle prossime sedute della Knesset, il parlamento israeliano, che dovrà affrontare anche le proteste delle decine di migliaia di persone che nel corso delle scorse settimane si sono riversate nelle vie di Tel Aviv in difesa della democrazia. Il movimento ha coinvolto anche Haifa, Beer Sheeva e Gerusalemme, dove lo slogan “Difendiamo la Democrazia” rende esplicito il malcontento di una fetta ampissima dei cittadini nei confronti delle derive conservatrici del nuovo governo.
Nel frattempo, Israele e Palestina si monitorano con cautela in vista del mese di aprile, in cui coincideranno Ramadan e Pasqua ebraica: la visita del Segretario di Stato Anthony Blinken in Israele e Medio-Oriente rende l’area una polveriera che potrebbe causare altre violenze religiose e nazionaliste, sebbene nelle ultime ore il governo statunitense stia mediando per frenare una possibile  escalation.