L’emergenza coronavirus ha imposto l’uso di massa di guanti e mascherine. Una scelta obbligata per  fermare e prevenire il contagio. Il cambiamento delle abitudini alimentari dei consumatori ha invece incentivato l’uso di imballaggi in plastica. Quello che preoccupa oggi è lo smaltimento dei dispositivi monouso in assenza di un piano strategico sostenibile per l’ambiente. A lanciare l’allarme è Greenpeace: «Il Coronavirus ha aumentato il rischio di vedere compromessi i progressi sulla plastica usa e getta. La strategia del governo su guanti e mascherine è discutibile», ha detto Giuseppe Ungherese, responsabile inquinamento dell’associazione.

Guanti in plastica abbandonati nel parcheggio di un supermercato (Plastic Free/Facebook)

«Abbiamo ricevuto migliaia di foto e segnalazioni dai nostri follower sui social che hanno ritrovato nei piazzali dei centri commerciali centinaia di guanti, che volano via e inquinano l’ambiente circostante», racconta Luca De Gaetano, presidente dell’associazione Plastic Free. «Troviamo raramente guanti in lattice. Si tratta soprattutto di guanti monouso, bustine di plastica». Nel migliore dei casi finiscono negli inceneritori, ma spesso vengono abbandonati all’aperto. Sul canale Telegram di Plastic Free se ne vedono  su prati, alberi, nei tombini e anche nei piccoli torrenti, come testimonia uno degli ultimi video pubblicati dall’associazione. «Siamo ritornati al monouso per paura che tutto sia infettato dal coronavirus», afferma De Gaetano.  Secondo lo studio del New England Journal of Medicine, sono le superfici in plastica (insieme all’acciaio) a trattenere maggiormente  il virus rispetto a materiali come il rame o il cartone. «Sars-cov-2 – afferma lo studio – resta sulla plastica e l’acciaio fino a 72 ore dopo l’applicazione su queste superfici». Negli Stati Uniti l’industria della plastica sostiene che i sacchetti monouso siano il mezzo più sicuro per fare la spesa, scrive Politico. In numerosi stati sono state reintrodotte le buste monouso e proibita la spesa con sacchetti riutilizzabili. 

Nessun piano di smaltimento sostenibile – Il dibattito è aperto anche a causa della grande adattabilità del nuovo Coronavirus su tutte le superfici. Le uniche certezze  sul contagio riguardano la pericolosità dei luoghi chiusi e affollati come luoghi di lavoro, cinema, teatri e negozi. Tra questi ci sono i supermercati.   Il distanziamento è d’obbligo, ma stiamo adottando le politiche corrette che tengano anche conto dell’ambiente? Nell’intervista al Corriere della Sera sui rischi del contagio, l’immunologo Francesco Le Foche si dice scettico sull’utilizzo dei guanti: «se arrivi con le mani pulite e ti igienizzi, non c’è problema», ha affermato il responsabile del day hospital al Policlinico Umberto I di Roma.  «Se per i guanti non abbiamo nessuna indicazione, sulle mascherine il Governo ha fatto una scelta ben precisa verso l’usa e getta con prezzi calmierati. Ce ne sono in commercio che possono essere utilizzate anche 50 volte. Invece si danno a prezzi calmierati mascherine monouso con un grande spreco di risorse e inquinamento», denuncia Ungherese. Secondo uno studio del Politecnico di Torino, 8 mascherine su 10 in commercio non sarebbero idonee a proteggere dal contagio. L’utilizzo di massa di mascherine e guanti monouso pone interrogativi sul loro smaltimento. «Il rischio è di vedere mare e spiagge deturpate come sta succedendo in Cina e a Hong Kong», sottolinea Ungherese. Si possono recuperare e riciclare? « Guanti e mascherine potrebbero essere recuperabili ma attraverso una filiera separata. Alcuni ospedali lo fanno già», risponde Giuseppe Cottini, marketing manager di Ideaplast, azienda leader nella riconversione di materiale plastico. Ma un piano sostenibile e coerente di smaltimento non esiste. L’azienda milanese, che occupa 25 persone e produce imballaggi per  alimenti, arredi e giocattoli in plastica riciclata, investe anche in innovazione: «Stiamo già lavorando alla ricerca. Cercheremo di studiare una nuova composizione di plastica dove il virus attecchisca con meno facilità. Ma non è semplice». 

Soluzioni per la quarantena e anti contagio: peperoni, cetrioli e uno Spritz imbustato (Plastic Free/Facebook)

Il ritorno della plastica monouso? – Come gran parte dei settori legati alla produzione industriale, anche il quello della gomma e della plastica ha subito un crollo della produzione con la sospensione delle attività produttive. Secondo l’ultimo bollettino Istat, a marzo 2020 la flessione è stata del 28,7% rispetto allo stesso periodo del 2019. il settore del packaging dell’ortofrutta è l’unico ad aver registrato un aumento della domanda, soprattutto dall’estero. 
Fragole imballate singolarmente, cocktail imbustati, noci di cocco confezionate in contenitori  di plastica monoporzione. Anche cocktail sotto vuoto. L’emergenza sanitaria non ha creato il packaging monouso, ma ha contribuito a riproporlo sugli scaffali dei supermercati. La plastica è percepita come la soluzione di packaging più sicura dai consumatori che hanno cambiato le proprie abitudini alimentari. Secondo il rapporto Ismea sui consumi, nel periodo acuto della pandemia, da metà marzo a metà aprile, le vendite al dettaglio di prodotti alimentari confezionati sono cresciute del 18% rispetto al 2019. Contestualmente, conseguenza del lockdown, il settore dell’asporto è cresciuto del +116%. Si può parlare di un ritorno del monouso? « Tutto quello che prima veniva venduto sfuso oggi viene imballato», afferma Giuseppe Ungherese. «Il rischio è che le aziende continuino a scegliere questa modalità di packaging e consegna, preferendola ad altre soluzioni», gli fa eco il presidente di Plastic Free. Le preoccupazioni sono fondate anche perché le lobby europee di categoria hanno formalmente chiesto alla Commissione Europea di posticipare l’entrata in vigore della direttiva che proibisce l’uso di plastica monouso a partire dal 2021. Il commissario europeo all’ambiente e vice presidente della Commissione Frans Timmermans si è opposto e ha ribadito la necessità di integrare un piano verde per l’Europa in tutti gli investimenti nei paesi europei per la ripresa economica post Covid. Tuttavia in Italia la tassa sulla plastica monouso sarà rinviata al 2021. Le imprese produttrici di dispositivi monouso avrebbero dovuto pagare una tariffa di 0,45 euro per un chilo di plastica prodotto. La tassa escludeva la produzione di riciclata, settore che da solo comprende 5mila aziende e 15 miliardi di fatturato in Italia e i dispositivi medici e farmaceutici. «Il riciclo costa di più perché ha una filiera più lunga. La plastica viene lavata, sminuzzata e fusa prima di essere ricomposta. I nostri prodotti costano di più per questo motivo», spiega il manager di Ideaplast. 

Le conseguenze del coronavirus si fanno sentire anche per il settore del riciclo. «Il sistema è stato a lungo fermo perché considerata attività non essenziale quindi ci troviamo con montagne di plastica da smaltire. In più con il crollo del prezzo del petrolio costerà meno comprare resina vergine rispetto alla plastica riciclata», spiega Ungherese. Come denuncia l’associazione europea di categoria PRE gran parte degli impianti europei di riconversione sono fermi a causa della crisi industriale. In questo contesto molte aziende potrebbero tornare alla produzione di monouso, ignorando per il momento le prescrizioni della direttiva che tassa la plastica monouso. «Non c’è salute in un pianeta malato, servono investimenti verdi su clima, plastica e agricoltura. La tassa sul monouso era un’intuizione giusta perché poteva far convertire le aziende verso soluzioni sostenibili. L’industria non ha accolto questa possibilità», sottolinea Greenpeace.

I rischi per l’ambiente e per la biodiversità marina sono ormai noti, come testimoniano le fotografie di cetacei, pesci e gabbiani morti a causa dell’ingestione di plastica. Secondo il rapporto Wwf ogni anno 570 mila tonnellate di plastica finiscono nelle acque del Mediterraneo. L’equivalente di 33.800 bottigliette gettate in mare ogni minuto. Secondo l’ultimo report sull’inquinamento del mare e le microplastiche della rivista Science, la zona più inquinata dalle piccole particelle contenute anche nei vestiti è il mar Tirreno, tra Sardegna e Corsica con 1.9 milioni di particelle per metro quadro.
L’associazione Plastic Free ha lanciato una campagna sui social per ripulire le spiagge di mari e fiumi. In una settimana i volontari hanno raccolto circa 100 chili di rifiuti. Il rischio riguarda anche la salute umana, fa notare il presidente dell’associazione: «Tra cinque anni avremo problemi a livello della fauna marina, poi la plastica arriverà a tavola, già oggi si stima che ingeriamo 5 grammi di nano plastica al giorno».