Una sfilata di camion in livrea mimetica, come in una parata militare. È l’immagine di quella che in molti definiscono “la nostra guerra”. Il 18 marzo 2020 è stato sopratutto questo. Il momento in cui gli italiani sono stati messi davanti al rele significato della parola pandemia: dentro quegli autocarri c’erano le bare, 65, che dal Cimitero Monumentale venivano trasportate fuori da Bergamo. I forni per la cremazione del cimitero non erano più in grado di gestire il numero di cadaveri che la pandemia aveva provocato. Hanno dovuto trasportarli in altre regioni, soprattutto in Emilia-Romagna, a Modena, nel Friuli e nel Piemonte.
La comprensione – Per i nostri concittadini i casi erano due: comprendere che quello era il motivo per cui l’Italia intera era stata chiusa in casa, in trincea, per proteggere i propri cari oppure gridare alla notizia falsa, al fotoritocco, al complotto politico. E in Toscana qualcuno ha insinuato che la fotografia dei camion non era reale, bensì scattata in un momento diverso per giustificare la stretta imposta dal governo Pd-5stelle, presieduto da Giuseppe Conte. Ne è seguita una querela da parte dell’assessore bergamasco Giacomo Angeloni: «parole inaccettabili». Quella foto ha significato anche questo: una scelta di parte. Accettare le dure imposizioni del lockdown oppure rifiutarsi di credere ai fatti per un mal posto senso di libertà personale. Mal posto, perché a morire per la Covid, ora come allora, erano sopratutto i nostri cari, le persone più fragili. Mal posto, perché anche i più acerrimi detrattori del Governo in carica o del sindaco bergamasco Giorgio Gori avrebbero dovuto ascoltare l’appello del presidente della Lombardia Attilio Fontana: «State a casa, tra pochi giorni non saremmo più in grado di dare una risposta a chi si ammala», aveva detto. Parole pesanti come macigni, nel momento in cui il sistema sanitario lombardo aveva mostrato per la prima volta tutta la sua fragilità.
La scelta – Di colpo divenne chiaro a tutti il ruolo delle terapie intensive e di cosa significa la loro saturazione. Nove giorni prima di quel 18 marzo 2020, proprio da Bergamo erano risuonate le parole allarmanti del medico anestesista Christian Salaroli: «Si decide per età e per condizioni di salute. Come in guerra». Si decideva chi curare e chi no, e per descrivere la situazione fu di nuovo usata la metafora della guerra. È stato un risveglio di coscienze collettivo. A Fontana va dato il merito di essere stato tra i primi a capire l‘importanza della mascherina, ma a essere scossa è stata l’idea stessa dell’eccellenza sanitaria lombarda basata sui grandi centri ospedalieri. Si era sentita la mancanza di una medicina territoriale efficace che potesse fare da filtro ai malati di Covid meno gravi. In quei giorni, si ricoverava chiunque avesse i sintomi. L’intasamento degli ospedali era a un passo, così come il loro diventare il primo focolaio di contagi. Un costo enorme anche per i medici e gli infermieri che vi lavoravano: nella sola provincia di Bergamo sono morti sei dottori e 150 sono stati contagiati.
Le responsabilità – È stato l’inizio del dibattito sul sistema sanitario nazionale declinato su base regionale. Discussione che a lungo ha insisto sulle mancate zone rosse nei comuni di Alzano Lombardo e Nembro, che hanno fatto levitare il numero di morti intorno a Bergamo. Quella primavera, per l’immaginario collettivo la Val Seriana era il centro stesso della pandemia. Chi avrebbe dovuto chiudere la zona? Il governo? O doveva chiuderla la Regione? Si è pensato anche a pressioni dirette da parte di Confindustria per mantenere l’apertura, data la contrarietà degli industriali alle misure restrittive confermata da Marco Bonometti (presidente di Confindustria Lombardia) davanti ai magistrati. Dopo quel 18 marzo non era più possibile derubricare la Covid a una specie di grande influenza, come si era fatto fino a prima, o portare avanti atteggiamenti superficiali. La partita di Champions League Atalanta-Valencia del 19 febbraio ne è ancora l’esempio. 3.402 persone, un quinto dei tifosi della Dea presenti a quell’evento, avrebbe manifestato i sintomi della Covid nel giro di due settimane, aggravando la crisi di Bergamo. Tra le 2.500 e le 2.700 persone sarebbero risultate positive al successivo tampone. Da allora fu evidente che la pandemia non ammetteva leggerezza.