La chiameranno generazione “C”. Sarà quella dei bimbi nati da febbraio 2020 in poi, in un mondo alle prese con la pandemia da Coronavirus.  Ma se la  prima battaglia della vita, per loro, comincia con il primo vagito, quella delle loro mamme va avanti già da mesi. La sola idea di partorire in ospedale, infatti, genera preoccupazione. E torna la voglia di dare alla luce nel conforto della propria casa, con rischi e vantaggi.

Negli Stati Uniti il numero di richieste inviato alle ostetriche per l’home-birth è stato superiore rispetto al numero di operatrici sanitarie specializzate nell’assistenza a domicilio. In Italia le richieste sono triplicate. Un dato che non interessa solamente le regioni più ferite dal virus come Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, ma anche il Lazio. «Abbiamo ricevuto un esubero di richieste per l’assistenza a domicilio» spiega la Dottoressa Nadia Rovelli, Presidente dell’Ordine Professione Ostetriche di Bergamo, Cremona, Lodi, Milano, Monza e Brianza. «La richiesta di ostetriche è aumentata enormemente soprattutto perché in alcune province i presidi territoriali, come i consultori e i servizi alla maternità, sono stati chiusi».

Solo la Regione Lombardia all’anno conta 75mila donne in gravidanza, nei mesi dell’emergenza sanitaria quindi circa 15-18mila donne hanno richiesto assistenza. L’incertezza sulla sicurezza degli ospedali nel periodo peggiore (di marzo e aprile): «ha spinto donne a partorire in casa da sole, senza nemmeno l’assistenza ostetrica necessaria», racconta la Dottoressa Rovelli: «In una situazione del genere tutta la rete del percorso nascita doveva essere rafforzata e invece, non per una decisione della Regione (che ha deliberato già due anni fa in merito), si è trovata in difficoltà. Non è stata tutelata la salute materno-neonatale». Le ostetriche professioniste hanno valutato tutti i presidi di sicurezza e i possibili rischi collegati al contagio da Covid, selezionando le donne che potevano essere assistite al domicilio. «A fronte dell’aumento delle richieste le ostetriche hanno calibrato molto il prezzo della loro prestazione, perché questo è dipeso dalla chiusura dei servizi sanitari pubblici» specifica Rovelli.

Lo scorso anno in Italia i parti a domicilio sono stati 500, il prossimo, potrebbero essere molti di più. Non è solo una questione legata alla paura del contagio negli ospedali ma anche un fattore di partecipazione al momento della nascita. I papà sono ammessi solo al momento del parto e le visite di amici e parenti negli ospedali sono sospese. «L’elemento più doloroso, e questa è la parola giusta da utilizzare – perché tutta la componente sociale, emotiva, psicologica emerge durante il travaglio e il parto – non è stato l’uso della mascherina, ma l’assenza del partner» spiega la Dottoressa Rovelli. Tante mamme non hanno avuto scelta perché non rientravano tra le donne a basso rischio per il parto a domicilio o semplicemente, hanno preferito continuare il loro percorso in ospedale.

Partorire a casa in questo momento, è sicuro? La Professoressa Irene Cetin, Direttrice del Dipartimento Materno Infantile dell’Ospedale Buzzi di Milano non ha dubbi: «Sono assolutamente contraria. Soprattutto nel periodo di picco era un grande rischio perché non c’erano ambulanze disponibili per intervenire in caso di complicazioni», continua Cetin: «Ci dicevano di non andare a correre per non bloccare i Pronto Soccorso, figuriamoci per un parto. Inoltre, non si può creare l’ambiente ospedaliero in una casa e non si possono garantire gli stessi dispositivi di sicurezza per la mamma e per il bambino». Dello stesso parere anche il Professor Fabio Mosca, presidente della Società Italiana di Neonatologia: «Con il parto a domicilio si rischia di passare dalla padella alla brace. Il parto oggi è tutelato come prima e più di prima. Ci sono percorsi all’interno degli ospedali che non si incontrano mai, il personale che lavora a contatto con mamme Covid non lavora con mamme Covid-free e soprattutto deve essere certificato e restare sempre in contatto con un ospedale. Oggi è un rischio inaccettabile» sottolinea Mosca.

Vivere una gravidanza durante la pandemia è stata una cosa nuova. Oltre all’obbligo di rimanere nella propria abitazione, limitare i contatti con l’esterno e portare sempre guanti e mascherina, è cambiato anche l’iter delle visite, il corso pre-parto e l’ingresso in ospedale. «Le visite mediche essenziali durante la gravidanza sono circa sei, queste sono state mantenute. I corsi di preparazione al parto invece, sono cambiati radicalmente» spiega la Professoressa Cetin: «Non si fanno corsi di gruppo ma solo riunioni in remoto con Zoom o altri sistemi elettronici». Tra i vari esami richiesti per il ricovero in ospedale alle neo-mamme ora c’è anche il tampone. In base all’esito del test le mamme vengono divise in reparti Covid (accolte in stanze singole) e Covid-free (dove è possibile condividere la stanza con altre future mamme). La novità più triste: il divieto d’accesso ai papà. Non un’esclusione totale ma solo una temporanea finestra di partecipazione al momento del parto e alcune visite programmate dopo la nascita. Non tutto il male viene per nuocere. Tra gli aspetti positivi di questa assenza una ritrovata concentrazione e un miglior riposo per le mamme.

Una delle maggiori preoccupazioni per i futuri genitori rimane sempre quella del contagio. «Dallo scoppio della pandemia, in tutta la Lombardia ci sono stati circa 200 parti con diagnosi Covid» specifica Cetin, «al Sacco una cinquantina. Le mamme positive al virus erano molto preoccupate perché pensavano di essere spostate in un reparto “lazzaretto”» spiega la Professoressa, «abbiamo cercato di fare il possibile per far sentire a proprio agio i genitori, che poi ci hanno ringraziato». La letteratura in merito non ha ancora una risposta precisa, gli studi scientifici in corso sono molti e ancora in fase di pubblicazione, ma c’è un dato positivo. «Il rischio di infezione è basso» sottolinea la Professoressa, «e la sintomatologia in caso di positività al Coronavirus nel bambino non è grave». Gli ultimi studi pubblicati dalla SIN lo confermano: «I primi dati che abbiamo a disposizione ci dicono che più del 95% dei neonati non ha contratto l’infezione» rassicura il Professor Mosca. Ed è proprio grazie a questi dati confortanti che gli specialisti consigliano sempre l’allattamento al seno, considerato fondamentale per il corretto sviluppo del bambino, ma con una piccola aggiunta: la mascherina. Questa dovrà essere essenziale in caso di mamme positive ma non c’è timore per la trasmissione con il latte. «L’allattamento va sostenuto e tutelato» sottolinea Mosca, con maggiori accortezze: «Le mani non vanno in bocca al neonato, l’igiene delle mani deve essere sempre curato e la mascherina non può mancare».

Michela Marinelli in posa davanti al Duomo di Milano il 5 maggio

Secondo le stime dell’Unicef, la generazione “C”, quella dei nati post Covid-19 segnerà un + 116 milioni nella popolazione mondiale. Tra i nuovi arrivati c’è anche la piccola Emma, nata alle 15,15 di giovedì 14 maggio alla Clinica Mangiagalli di Milano. La sua coraggiosa mamma si è trovata in pieno lockdown nell’ultimo trimestre di gravidanza. Il suo primo pensiero, quando ha saputo che il virus aveva colpito Milano, è stato per i suoi genitori. «Vivono in Sicilia e dovevano venire a Milano per la nascita della bambina. Non sono ancora arrivati perché gli hanno annullato due biglietti. Io qui non ho parenti» racconta Michela Marinelli. «Non riuscivo ad uscire, avevo paura anche a fare la spesa ma Deliveroo mi ha aiutato» continua Michela, «Sono uscita solamente per fare le ultime visite». Fare una passeggiata tra i negozi, poter scegliere qualcosa per la bimba sono state le cose di cui ha sentito più la mancanza. «Il dover fare tutto online (compreso il corso pre-parto ndr) è stato difficile. Mi è mancata la normalità». Michela non ha mai pensato di partorire in casa. È entrata in ospedale da sola, come da programma, dopo aver ricevuto l’esito negativo al tampone per il Covid-19. Dopo tre giorni di travaglio con la mascherina (che deve sempre essere tenuta in presenza del personale sanitario) ha confessato: «Me la sono strappata, non ce la facevo più. L’ostetrica mi ha visto e non ha detto nulla». Anche per i papà seguire da casa – soli e in attesa –  il termine della gravidanza è stata un’avventura eccezionale. Il compagno di Michela è riuscito a raggiungerla (con qualche difficoltà nel labirinto dei triage ospedalieri) solo al momento del parto. Poi qualche visita nei giorni successivi ma sempre e solo con la mascherina. Soltanto quando la famiglia si è riunita a casa, Emma ha potuto vedere il sorriso del suo papà, per la prima volta.