Le associazioni per le donne avevano lanciato l’allarme fin dall’inizio delle misure che hanno obbligato i cittadini a stare a casa per l’emergenza sanitaria da Coronavirus. Il timore condiviso era che per chi viene maltrattata in famiglia la quarantena sarebbe coincisa con un aumento delle violenze. L’isolamento, la convivenza forzata, l’impossibilità di sottrarsi materialmente alle violenze uscendo di casa e l’instabilità socioeconomica del periodo avrebbero reso le donne e i loro figli ancora più esposti alla violenza domestica.
Ora i dati confermano le paure. Secondo il rapporto Istat di maggio, durante il lockdown sono state 5.031 le telefonate valide al 1522, il numero nazionale antiviolenza e stalking. Sono il 73 per cento in più sullo stesso periodo del 2019. Le vittime che hanno chiesto aiuto sono 2.013 (+59%). Le chiamate motivate da una richiesta di aiuto per violenza subita ammontano a 1.543, ma si chiama anche per avere informazioni sul servizio del numero (28,3%) o per manifestare altre situazioni di disagio diverse dalla violenza (17,1%). Il 45,3 per cento delle vittime chiama perché ha paura per la propria incolumità o di morire. Un dato importante e da sottolineare è che nel 93,4 per cento dei casi la violenza si consuma tra le mura domestiche. Ma il 72,8 per cento di chi chiama non denuncia il reato subito. C’è infatti un problema nel problema: per le donne costrette in casa è ancora più difficile allontanarsi dalla spirale di violenza e denunciare. E così dai dati Istat emerge che le denunce per maltrattamenti in famiglia sono diminuite del 43,6 per cento, quelle per femminicidi del 33,5 per cento, tra le quali risultano in calo dell’83,3 per cento le denunce per omicidi di donne da parte del partner.
Una rilevazione fatta da “Donne in rete contro la violenza” (D.i.Re.), un’associazione nazionale che riunisce più di 80 organizzazioni che gestiscono centri antiviolenza e case rifugio in diciotto regioni italiane, mostra che rispetto allo stesso periodo dello scorso anno le richieste di aiuto pervenute ai loro centri antiviolenza sono aumentate del 74,5 per cento. È un dato emerso dalla rilevazione statistica condotta tra le organizzazioni che aderiscono alla rete.
Secondo l’associazione, l’incremento è dato soprattutto dalle richieste di supporto da parte di donne che erano già seguite dai centri, costrette a trascorrere in casa con il maltrattante questo periodo di lockdown. C’è poi un altro dato che mette in allarme ed è il calo dei contatti delle donne che non si erano mai rivolte alla rete prima. Tra il 2 marzo e il 3 maggio i centri sono stati contattati complessivamente da 2.956 donne, di cui soltanto 979 (il 33%) non si erano mai rivolte prima ai centri antiviolenza del loro territorio. Mentre nell’ultima rilevazione dati D.i.Re (2018) le vittime che si sono rivolte ai centri antiviolenza della rete in un anno sono state 19.715, di cui 15.456 (pari al 78%) erano donne “nuove”. In questo periodo le donne non riescono a sfuggire al controllo di chi le minaccia neanche per fare una telefonata, di sicuro non per spiegare perché si sta chiamando.
Per questo si pensa sia indispensabile una parola in codice, da digitare rapidamente per chiedere aiuto. L’accordo tra il Dipartimento per le Pari Opportunità e la Federazione degli Ordini dei Farmacisti Italiani è stato siglato il 2 aprile e mira a potenziare, attraverso il contributo delle farmacie, l’informazione per le donne vittime di violenza o stalking. L’iniziativa prevede che le farmacie presenti sul territorio nazionale ricevano materiale informativo, tra cui cartelli sul numero antiviolenza 1522 da esporre all’interno degli esercizi commerciali e che consentano alle donne di accedere alle prime indicazioni utili per prevenire ed affrontare in modo efficace eventuali situazioni di violenza. Rivolgendosi al bancone e chiedendo al farmacista «una mascherina 1522» si potrà ricevere un volantino che pubblicizza il servizio telefonico e le app della polizia. Ma un volantino può essere spesso un pericolo, se portato con sé a casa e trovato dal convivente violento. Per questo le associazioni delle donne e D.i.Re hanno smentito la notizia, circolata sui media e sui social, che fosse attivo un protocollo per cui i farmacisti avrebbero messo le vittime direttamente in contatto con i centri antiviolenza del territorio, specificando che la loro è un’azione puramente informativa. «L’iniziativa è finalizzata esclusivamente a indirizzare le donne vittime di violenza e di stalking al 1522, al fine di avviare un percorso di uscita da situazioni di criticità in ambito domestico», precisa D.i.Re nella nota diffusa sulla pagina Facebook, riferendosi al protocollo sottoscritto il 2 aprile. «Le operatrici del 1522 possono a loro volta indirizzare le donne che chiedono aiuto ai centri antiviolenza della rete D.i.Re, che sono tutti mappati nel servizio. Ma questa è cosa ben diversa che annunciare un protocollo d’intesa con i centri antiviolenza e illudere le donne che pronunciando “Mascherina 1522” vengano messe direttamente in contatto con il centro antiviolenza del territorio».
L’incremento delle chiamate però sembra non corrispondere a un aumento dei casi di violenza. Secondo i dati del sito FemminicidioItalia.info, i femminicidi durante i mesi di marzo e aprile sono nove, contro i 14 negli stessi mesi nel 2019. Probabilmente la crescita dei contatti è da attribuire alle campagne di sensibilizzazione delle associazioni che hanno fatto sentire le donne meno sole.
Ma il problema è che il Coronavirus cambia la narrazione della violenza sulle donne, raccontando una realtà falsata che sembra voler spiegare un crimine con il “dramma della convivenza forzata”. Questo cortocircuito è ben visibile nella storia dell’omicidio di Lorena Quaranta. La ragazza aveva 27 anni ed è stata uccisa il 31 marzo dal suo compagno e convivente, Antonio De Pace, 28 anni. La loro relazione andava avanti da tre anni. Vivevano a Furci Siculo in provincia di Messina. Lorena studiava Medicina e sognava di potersi unire presto ai medici che stanno combattendo l’emergenza sanitaria. Ad allertare i soccorsi è stato il compagno della donna intorno alle 8 del mattino. ?Ai carabinieri l’uomo ha rivelato di aver avuto una lite con la ventisettenne, al culmine della quale l’avrebbe accoltellata, colpita con una lampada, aggredita a calci e pugni e infine strangolata. Dopodiché, avrebbe tentato di suicidarsi procurandosi delle ferite superficiali al collo e ai polsi. Sono passate diverse ore prima che il ventottenne si decidesse a chiamare i soccorsi nella mattinata. De Pace è stato condotto in carcere con l’accusa di omicidio volontario. Il 2 aprile, nell’udienza di convalida del fermo, il ventottenne si è avvalso della facoltà di non rispondere. ?Il giudice per le indagini preliminari ha disposto la misura di custodia cautelare in carcere, specificando nell’ordinanza che De Pace avrebbe agito assecondando i propri impulsi criminali senza mostrare, tra l’altro, alcun segno di pentimento.
In storie come questa le scusanti del Coronavirus e della convivenza forzata vanno a sostituire altri termini nelle narrazioni tossiche della violenza di genere che viene attribuita al raptus, al dramma della gelosia, alla disoccupazione, alla separazione, alla paura dell’abbandono, e così via. L’associazione “Non una di meno” mette in guardia dai problemi che una tale narrazione può causare. «In una società in cui la donna viene colpevolizzata, in cui la narrazione tossica dei media tende sempre a giustificare l’assassino, le donne colpite si sentono più che mai sotto pressione e attacco», afferma l’organizzazione femminista. «Sottovalutare un messaggio come questo aumenta la possibilità che le donne si sentano in colpa e fuori luogo nell’esporre una situazione di violenza in cui l’emergenza Covid-19 copre tutti gli altri problemi».