Ognuno a modo suo. Ognuno per le sue vie. È difficile trovare anche solo due regioni italiane che abbiano agito allo stesso modo sui test sierologici. Qualcuno li ha attivati presto, qualcuno ha aspettato, qualcun altro ha detto che andavano bene solo di un tipo e con certi requisiti. Sono gli esami che rilevano la presenza di anticorpi nel sangue. Più volte sono stati indicati come uno degli strumenti indispensabili alla gestione del virus nella fase 2, perché indicano chi ha già contratto il Covid-19, anche in forma asintomatica, e se ne sia guarito.

«Rappresentano una cicatrice dell’infezione», chiarisce Andrea Gori, direttore di Malattie Infettive al Policlinico di Milano, «ma non devono essere usati come diagnosi»: per sapere se il virus è ancora in circolo, bisogna fare il tampone. I test sierologici aiutano a capire la storia della malattia in un corpo infetto: «Rilevano nel nostro sangue due tipi di immunoglobuline, cioè gli anticorpi che vengono prodotti in risposta a un virus», spiega Graziella Messina, docente di Istologia all’Università degli Studi di Milano. «Le IgM (immunoglobuline M), che nascono in risposta immediata a un’infezione, dopo pochi giorni, e le IgG (immunoglobuline G), che si sviluppano dopo almeno due settimane e in alcuni casi possono dare un’immunità permanente, sono neutralizzanti». In poche parole, le IgM indicano che la malattia è ancora presente nel corpo, le IgG che è stata superata (anche se in alcuni casi il virus potrebbe essere ancora in circolo). Se nessuna delle due classi di anticorpi viene trovata, significa che non ci si è mai ammalati, oppure che l’infezione è talmente recente che ancora non è stato sviluppato alcun anticorpo.

 

PUNGIDITO O PRELIEVO, I TEST NON SONO TUTTI UGUALI

Esistono due tipi di test sierologici. Il primo è quello cromatografico, anche detto rapido o qualitativo, e si effettua con il metodo “pungidito”: si preleva una goccia di sangue dal dito e la inserisce in una scatoletta di plastica (simile a quella di un test di gravidanza), che riconosce l’eventuale presenza di IgM o IgG. «L’attendibilità di questo test è del 65/70%», specifica Gori, «non dico che sia un po’ come tirare una monetina, ma in medicina non basta. Ci sono molti falsi positivi e anche falsi negativi. In più, potrebbe confondere gli anticorpi legati ad altri coronavirus, che magari uno ha sviluppato durante un periodo influenzale di qualche anno fa». Poi c’è il test classico, o quantitativo, che avviene con un normale prelievo di sangue venoso e misura la concentrazione degli stessi anticorpi. Si tratta di rilevazioni molto più sicure: «Possono avere un’attendibilità anche del 98/99%, e va detto che anche questi sono abbastanza rapidi, in una giornata se ne testano in grandi quantità», dice Gori.

È con questi test più sicuri che l’11 maggio – con una settimana di ritardo sui tempi annunciati – è cominciata l’indagine nazionale dei test sierologici su 150 mila persone, condotta dal ministero della Salute con l’Istat. L’istituto di statistica ha individuato un campione rappresentativo della popolazione, basandosi su parametri come fascia di età, distribuzione geografica, possibile esposizione al virus, tempo di isolamento domiciliare. Ma intanto quasi tutte le regioni d’Italia avevano già iniziato a muoversi, ognuna per conto proprio. Così l’indagine nazionale in corso si sovrappone alle strategie territoriali già avviate. «È molto pericoloso confrontare dati di test con diverse affidabilità», avverte Messina, «è poco indicativo per studi epidemiologici. E se viene utilizzato dai singoli per poter dire “sono immune”, allora siamo completamente fuori strada».

Un test sierologico a prelievo venoso di tipo ELISA, tra quelli raccomandati dalla comunità scientifica

Un test sierologico a prelievo venoso di tipo ELISA, tra quelli raccomandati dalla comunità scientifica

IL CAOS DELLE REGIONI, OGNUNA PER SÉ

In 17 regioni su 20 si fanno anche i test rapidi. Qualcuno ci ha puntato fin dall’inizio di aprile, come il Veneto e la Toscana. Quest’ultima ne ha già distribuiti 90 mila e intende arrivare a 400 mila entro la fine di giugno. Il Veneto invece ha prima condotto una sua indagine su un campione di persone e ora punta a fare test “a tappeto” su tutta la popolazione. Il governatore Luca Zaia aveva parlato della possibilità di conferire ai cittadini una patente di immunità, cioè un certificato per permetterebbe di lavorare e andare in giro a chi abbia sviluppato gli anticorpi neutralizzanti IgG. «La patente di immunità non esiste nemmeno con i test quantitativi a prelievo venoso, figuriamoci con quelli rapidi», spiega Graziella Messina, «il problema del sierologico è che ti dice se hai preso il virus, non ti dice che non lo prenderai». E diversi casi di ritorni di positività si sono già visti (per esempio su un calciatore della Sampdoria). «È vero che uno che sviluppa anticorpi neutralizzanti per un periodo di tempo sufficiente può stare un po’ più tranquillo», commenta Andrea Gori, «ma quanti ne servono? E quali? Paradossalmente chi contrae la malattia in forma più grave ha i titoli anticorpali più alti. Ma è evidente: se quella persona continua a stare male, significa che quegli anticorpi non bastano. Allora forse ne esistono di più efficaci, come quelli di chi guarisce in breve tempo. Attualmente è lo studio più importante della ricerca: così si può elaborare un vaccino».

La necessità di avere una risposta, almeno statistica, su determinate categorie ha spinto molte regioni all’utilizzo dei test rapidi, perché ad aprile erano più facilmente reperibili sul mercato. Così ha fatto l’Emilia-Romagna per il personale sanitario, o il Piemonte nelle Rsa (salvo poi cambiare completamente idea dopo pochi giorni). Ma nel mese di maggio lo ha fatto anche la Liguria per chi deve tornare a lavoro, e la Sardegna per i detenuti nel carcere di UtaEppure oggi l’alternativa più sicura, quella del test col prelievo, ci sarebbe. Andrea Gori la sta utilizzando al Policlinico di Milano, e ha priorità simili: «Ci sono popolazioni su cui è più urgente avere risposte: quella ospedaliera, quella delle Rsa, quella dei pazienti sospetti che mi mandano i medici. Dato che ne ho la possibilità, faccio il test del sangue: non ci sono ragioni per usare l’altro». Certo il test rapido a scatoletta potrebbe essere diffuso su tutta la popolazione in tempi minimi. Per adesso non è abbastanza affidabile: «Mi aspetto che le aziende stiano studiando, e che arrivino, i test cromatografici rapidi di seconda generazione, con attendibilità ben diverse».

LE SPECULAZIONI DEI PRIVATI SUI TIMORI DEI CITTADINI

 La Regione Lazio ha iniziato l’11 maggio, in ritardo su molti, con una grande gittata da 300 mila test sierologici, di cui 100 mila rapidi. Qui e altrove però era già concesso alle cliniche di fare test al singolo cittadino che volesse pagarselo da sé, e la Regione aveva imposto un tetto dei prezzi a 20 euro per il test rapido e a 45 per il test con prelievo. A seguito di una denuncia del Codacons di prezzi «tra i 130 e 150 euro»è intervenuto l’Antitrust e la situazione è rientrata. Costi simili si sono visti anche in Umbria, Puglia. Fa storia a sé la Calabria, dove non era stato disposto alcun test a livello regionale, ma ai privati era concesso di fare i test. Almeno fino al 6 maggio, quando il commissario straordinario dell’Asp di Cosenza, Giuseppe Zuccatelli, ha bloccato tutto: «Ho visto anche volantini propagandistici, con test fino a 60 euro», racconta, «così ho scritto alla governatrice Santelli per evitare che sull’onda della “psicopatologia diffusa” da virus si speculasse ulteriormente». Non solo: persino in Lombardia, dove la giunta aveva atteso a lungo che fossero pronti i test sierologici affidabili e a prelievo di Diasorin – una scelta che aveva procurato diverse critiche dalle opposizioni –, Open ha documentato un caso di test “pungidito” a domicilio. Prezzo: 170 euro.

Come funziona un test rapido. Fonte: https://thebiologynotes.com/

Come funziona un test rapido. Fonte: https://thebiologynotes.com/

Già nelle passate settimane c’erano stati comuni ribelli, come Robbio nel pavese e Ghedi nel bresciano, che effettuavano i test rapidi nonostante il divieto regionale. A Cisliano invece, provincia di Milano, si facevano test quantitativi a prelievo che non erano della tipologia accettata da Regione Lombardia. Poi la sperimentazione ufficiale a livello regionale è partita, il 23 aprile, e la procura ha aperto un fascicolo conoscitivo sulla scelta di incaricare la multinazionale Diasorin con affidamento diretto. Solo con una delibera del 12 maggio, a quasi tre settimane dall’avvio dell’indagine, Regione Lombardia ha fornito indicazioni definitive sui test sierologici: autorizzate anche le cliniche private, che possono sottoporre ai cittadini anche i test rapidi, ma qualora risultino positivi si dovrà comunque passare dal test quantitativo per confermare il dato (e infine dal tampone, ma quello avviene in ogni caso di positività). Non è stato fissato un prezzo consigliato (come invece è avvenuto per il tampone, a circa 63 euro).

SIAMO MOLTO LONTANI DALL’IMMUNITÀ DI GREGGE

Rimangono tre regioni in cui non sono stati approvati test rapidi. Due sono Abruzzo e Friuli, che non hanno mai approvato alcun tipo di sierologico e li vedono per la prima volta con l’indagine nazionale. L’altra, la prima della classe in Italiasono le Marche, con una procedura ineccepibile votata da una delibera della giunta il 30 aprile: «Il test da effettuare è di tipo quantitativo, con la metodica della chemiluminescenza ed esclude i test rapidi», si legge sul sito della Regione. Se poi il test è positivo, bisogna fare il tampone. In questo modo si possono fare anche delle stime precise sulla letalità, perché si saprà esattamente quante persone hanno avuto contatti con il virus. Il concetto fondamentale rimane questo: al test sierologico positivo va affiancato il tampone naso-faringeo per capire se si è ancora contagiosi e se è meglio stare a casa. Allo stesso tempo, anche il tampone, da solo, ci dice poco: «In media, ci vogliono 23 giorni dalla fine dei sintomi alla negatività del tampone definitiva. Molti tamponi devono essere fatti a persone che stanno bene, già risultate positive, ed è giusto che si faccia così. Poi ci vogliono due tamponi per confermare la negatività. Insomma: cosa ci restituisce il numero sui positivi del bollettino delle 18?» si chiede Andrea Gori. «Se faccio test sierologici su tutti i dipendenti del Policlinico, so qual è la prevalenza dell’infezione: ho un numero certo. Poi posso fare un confronto con l’ospedale di Firenze, fare delle stime. Funziona così anche per decidere sulle riaperture in città. L’immunità di gregge si raggiunge dal 60/70% in su, a Milano probabilmente arriviamo al 10%: non è una strada percorribile al momento, vorrebbe dire far morire tantissime altre persone». Per valutazioni di questo genere, per mettere in relazione i dati, per fare confronti, servono i test sierologici. Per metterci meno tempo possibile, serve che le regioni comincino a parlarsi.