All’interno della comune autogestita (foto Lucha y Siesta)

«Perché quando c’è qualcosa che funziona nel disastro totale, bisogna distruggerlo?». Se lo chiede Cristiana Cortesi, una delle anime del collettivo Lucha y Siesta, la Casa delle donne di Roma che dalla sua creazione, nel 2008, accoglie le donne vittime di violenza. Una domanda che acquisisce ancora più valore, se si guarda il quadro sui centri anti violenza tracciato da Action Aid: nel 2018 solo lo 0,39% delle risorse è arrivato a case rifugio e centri anti violenza in Italia. Il sogno di Lucha y Siesta è nato con l’occupazione di uno stabile Atac, in un quartiere complesso come l’Appio Tuscolano, a pochi metri da Cinecittà: «L’abbiamo trovato in uno stato di degrado e abbandono, con i topi e i piccioni», dice Cortesi. Ora la comune delle donne rischia  la chiusura. La notifica di sfratto è arrivata a settembre, dall’Atac. Lucha y Siesta è nella lista degli immobili che l’azienda per i trasporti romana ha messo in vendita, per salvarsi dai debiti: «Non ci hanno ancora staccato le utenze per fortuna, ma noi resisteremo», dice l’attivista.

Presidio culturale e territoriale – A Lucha y Siesta oggi trovano rifugio e accoglienza 14 donne e 7 bambini. Vengono da percorsi molto diversi: italiane ma anche siriane, yemenite e romene. L’accoglienza non scade, c’è chi resta per qualche mese o per anni: «Noi non le buttiamo fuori ma le accompagniamo nel loro percorso», dice Cortese. «I centri anti violenza hanno tempi di permanenza stabiliti. Ma i tempi di ricostruzione sono più lunghi. Ogni donna ha il suo percorso che deve essere personalizzato». L’esperienza dell’associazione è atipica perché assume i tratti di una vera e propria comune autogestita, in cui le relazioni e la cultura hanno un ruolo di primo piano: «Aprendo quel cancello c’è una casa rifugio per donne che stanno uscendo da situazioni di violenza e fragilità, ma anche un presidio territoriale e culturale». Tra i progetti autogestiti, una biblioteca, uno spazio per la presentazione dei libri e un laboratorio per valorizzare le energie femminili: «Gestiamo una sartoria, che più che un laboratorio è un porto di mare perché è sempre aperta», dice Cortesi. «Queste attività ci rendono un presidio del territorio, in una città in cui non sono valorizzati. Le strade sicure le fanno le donne che le attraversano, non è con la camionetta della polizia che si risolvono i problemi».

Situazione di emergenza – L’associazione non è un centro anti violenza del Comune di Roma, ma mette a disposizione un surplus di posti letto essenziali: «A Roma ci sono solo 23 posti letto per le donne vittime di violenza. Fuori da questa rete ci siamo noi. La risposta delle istituzioni in termini di posti letto è totalmente insufficiente. Secondo i criteri della Convenzione di Istanbul (sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, ndr), i posti in città dovrebbero essere 200». Lucha y Siesta aderisce alla rete anti violenza del terzo settore e ha gestito progetti in accordo con il Comune di Roma, come una delle case di semi autonomia. Prima della notifica di sfratto i rapporti con il Comune erano buoni: «La sindaca Raggi ha incontrato le donne della comunità. Noi siamo aperte a tutto ma le istituzioni devono capire il valore della nostra esperienza mista».

Una manifestante in piazza con Non una di meno, a Roma, il 23 Novembre (foto Ansa)

Il sogno e il crowdfunding – «La costruzione di una società senza violenza si fa non solo offrendo servizi ma producendo un ragionamento culturale». In che modo? Per Cortesi, la sensibilizzazione nelle scuole è fondamentale «per costruire una cultura del rispetto dell’altro, che sia uomo, donna, bianco o nero. Con la cultura si costruiscono relazioni corrette». Il sogno di Lucha y Siesta continua nell’incertezza, ancora non sono arrivate offerte dal Comune: «Ci aspettiamo che qualcuno venga illuminato sulla via di Damasco», dice Cortesi.  Per salvare la comunità delle donne si è attivata la rete femminista  “Non una di Meno”, il gruppo  nato sull’onda del movimento di liberazione femminista argentino nel 2018. Alla manifestazione del 23 novembre, tante attiviste si sono presentate con la maschera della “luchadora”, un’emozione per le volontarie della comune autogestita. Intanto è stata lanciata la campagna di crowdfunding “Se voi la volete vendere noi ce la compriamo”. L’obiettivo è raccogliere fondi per acquistare l’immobile: «Siamo oltre i 60mila euro ma la strada è ancora lunga e l’obiettivo ambizioso», ha detto Rachele Damiani, responsabile della raccolta fondi.