Dietro le lenti di quel binocolo puntato ora su Fanfani, ora su Berlinguer, Giampaolo Pansa ingrandiva dettagli. Gli occhi fissi ad osservare, la penna in mano a registrare gli immobili cambiamenti della politica italiana. Raccontava e lo faceva sul serio. Giornalista, scrittore, commentatore, saggista, provocatore. Le anime di chi è riuscito a rappresentare la cronaca di mezzo secolo sono tante. E oggi, chi lo ha letto, conosciuto, ascoltato rende giustizia al ricordo di tutte quante. Il narratore dei capitoli più importanti della storia italiana si è spento ad 84 anni. Accanto a lui, nella clinica romana in cui era da pochi mesi, la sua Adele. Ad aspettarlo forse, in un mondo parallelo e magari migliore di quello che ha sempre raccontato, il figlio Alessandro, scomparso a 55 anni, solo due anni fa.

L’esordio – Appena ventisei anni, da poco assunto alla Stampa di Torino, e un servizio che rimase impresso come esempio indelebile del racconto di una tragedia: la cronaca “da un paese che non esiste più” (così iniziava il suo primo pezzo), mentre, in quel 10 ottobre del 1963, sotto la sua penna si delineavano i dettagli tristi del Vajont. Da lì fu storia. Il Giorno, Il Corriere della Sera, Repubblica – di cui fu per quasi vent’anni vicedirettore, – L’Espresso, Panorama. Poi Piazza Fontana, le Brigate Rosse, il caso Lockheed, le cronache vivide dei partiti del tempo. Una macchina da scrivere potente, sempre fedele a quello che gli occhi dietro al binocolo avevano visto, spesso noncurante dello stile ingessato e ufficiale del giornalismo dell’epoca.

La cronaca – «Sghignazzano. Capi e gregari di questa banda di macellai chiamati Brigate rosse entrano nelle gabbie e sghignazzano. Gettano un’occhiata distratta ai parenti delle loro vittime, alle madri, alle mogli, ai figli degli uomini che hanno ucciso o fatto uccidere, e sghignazzano”. Le prime righe dell’articolo sul processo alle Brigate rosse, datato 1982, sono l’esempio di una scrittura sanguigna di cui il giornalismo aveva, e continua ad avere, bisogno. Era la cronaca di un mondo che sceglieva e cambiava continuamente i propri attori e che attraverso aneddoti, dettagli, personaggi minori, poteva essere compreso in un misto tra analisi politica e cronaca pura. vecchia maniera. Oltre agli esemplari reportage, Pansa fu l’iniziatore dunque di un nuovo stile giornalistico che trovò in un lessico tutto personale la sua espressione più acuta. “Dalemoni” (sull’intesa tra D’Alema e Berlusconi), “Parolaio rosso” (Bertinotti), “Balena bianca” (la Democrazia Cristiana) sono soltanto alcuni dei lemmi coniati per descrivere recite e recitanti. Padre orgoglioso del Bestiario, storica rubrica disegnatrice di ritratti indiscreti dei più grandi protagonisti della politica italiana, creò per i lettori un appuntamento fisso che andò avanti per circa un terzo di secolo.

La Storia – Per quelli come Giampaolo Pansa, il rischio di guardare nelle pieghe di trame già conosciute e raccontate è sempre stato un prezzo da pagare con coraggio. Da un lato più di cinquant’anni di vita come storico. Dall’altra una delle accuse più gravi, quella di revisionismo, da parte degli amici più cari. Partito da un mondo di studi convintamente antifascista, da quella tesi di laurea dedicata alla “Guerra partigiana tra Genova e il Po”, arrivò ad esplorare, tra gli anni Novanta e il nuovo secolo, le zone oscure del partigianato. Era solito narrare di sangue versato per ideali e ideologie, ma nessuno nel 2003 si sarebbe aspettato il racconto de “Il sangue dei vinti”. Storie di stupri e torture, di crimini e fucilazioni da parte dei partigiani che avevano liberato il Paese da nazisti e fascisti. Quei racconti datati tra il maggio del 1945 e la fine del 1946, gli costarono non poche polemiche. «Dopo tante pagine scritte sulla Resistenza e sulle atrocità commesse dai repubblichini – disse a Repubblica – mi è sembrato giusto vedere l’altra faccia della medaglia. Ossia quel che accadde ai fascisti dopo il crollo della Repubblica sociale». Da lì un cumulo di botta e risposta a cui, l’ormai considerato “eretico” dalla sinistra italiana, non si sottrasse mai.

Via Solferino – Lo scorso settembre aveva ricominciato a scrivere sul Corriere della Sera, un ritorno dopo i cinque anni del 1973. «Sono arrivato al Corriere il 1° luglio del 1973 lasciando una gabbia di matti. La gabbia era il Messaggero di Roma, diretto da Alessandro Perrone.», aveva ricordato con la sua solita schiettezza nel suo articolo di rientro datato 20 settembre. La conclusione di quel pezzo fu forse la conferma di una passione mai spenta: «Morto mio figlio Alessandro, morta Lidia la mia prima moglie. Soltanto io sono ancora qui. E a volte mi domando che cosa ci faccio in questo mondo. Ma devo riconoscere che ritornare al Corriere mi mette di buonumore». Paradossale e vero: il narratore di dolori, tragedie, seti di potere, brama di denaro e chissà cos’altro ancora, ci lascia così, con l’eredità più semplice: il buonumore della scrittura. Nonostante tutto, nonostante il mondo.