Quarant’anni fa le Brigate rosse sequestrarono il più importante politico italiano uccidendo tutti e cinque gli uomini della sua scorta. Era 16 marzo del 1978 e, dopo 55 giorni di prigionia, il corpo di Aldo Moro fu trovato senza vita nel bagagliaio di una Renault 4 rossa parcheggiata in via dei Caetani, a metà strada tra le sedi romane del Partito Comunista e della Democrazia Cristiana. Un messaggio politico mandato per opporsi all’ingresso al governo del Pci, fin dal 1948  escluso da qualsiasi esecutivo. L’uomo che stava lavorando più di tutti a quel “compromesso storico” per un governo di unità nazionale era proprio Moro, allora presidente della Dc. Sono passati 40 anni da qull’episodio, che ha segnato per sempre la storia della Repubblica, e ancora non tutte le ombre sono state illuminate dalla luce della verità.

Il sequestro –  Alle 09.02 del 16 marzo 1978 almeno 11 brigatisti bloccarono in Via Fani, a Roma, le due macchine della scorta di Aldo Moro e uccisero i cinque agenti di polizia che avevano il compito di scortare il presidente della Dc dalla sua casa all’Università La Sapienza per un comizio. I brigatisti colpirono con un diluvio di proiettili il maresciallo Oreste Leonardi e l’appuntato Domenico Ricci, nella Fiat 130 blu dove si trovava Moro e trucidarono gli altri tre agenti nell’auto di scorta: Giulio Rivera, Raffaele Iozzino e il vice brigadiere Francesco Zizzi.  Lo scontro a fuoco durò tre minuti e Moro, illeso, fu nascosto in una cassa di legno dentro un furgone Fiat 850T e portato in via Camillo Montalcini 8, in un covo segreto brigatista dove rimase per 55 giorni. Il giorno dell’azione non fu scelto a caso: il 16 marzo il presidente del Consiglio Giulio Andreotti presentò in Parlamento un esecutivo di unità nazionale con l’appoggio esterno del Pci per ottenere la fiducia. L’obiettivo delle Br era quello di ottenere lo status di interlocutore politico e portare alla caduta del governo del “compromesso storico”.

I comunicati – Nel corso della prigionia del leader Dc, le Br mandarono numerosi comunicati, nove in tutto, dove chiedevano legittimazione politica e il rilascio di alcuni brigatisti in carcere. Le richieste non furono accolte dal governo Andreotti che si mostrò fin da subito intransigente. Solo una parte minoritaria della democrazia cristiana e il giovane segretario del partito socialista italiano, Bettino Craxi, chiesero una trattativa con i terroristi. Anche per questo i brigatisti permisero a Moro di scrivere 86 lettere, indirizzate ai quotidiani, alla famiglia, agli amici e ai colleghi di partito. Tra questi il segretario della Dc Benigno Zaccagnini, il ministro dell’Interno Francesco Cossiga, il presidente del Consiglio Giulio Andreotti e anche Paolo VI.

L’appello del Pontefice – Papa Montini, da sempre amico di Moro, fece invano un appello ai terroristi. La situazione precipitò quando i brigatisti capirono che il Governo non avrebbe mai ceduto. Il 30 aprile del 1978 il capo del nucleo brigatista Mario Moretti telefonò direttamente alla moglie di Moro per chiederle di convincere la Democrazia cristiana ad accettare la trattativa. Vista l’intransigenza del Governo, il fronte dei brigatisti si spaccò tra “falchi” e “colombe”, ovvero contrari e favorevoli all’omicidio del prigioniero. Dopo 55 giorni di prigionia e un “processo del popolo” Aldo Moro fu messo nel bagagliaio della Renault rossa e ucciso da Mario Moretti e Germano Maccarri.

Il processo – Il primo processo sul caso Moro si apri il 14 aprile del 1982, dopo gli arresti di numerosi brigatisti avvenuti nel 1979, e portò a 32 ergastoli e più di 1200 anni di reclusione per i sequestratori. Altri 26 brigatisti sono stati condannati all’ergastolo nel secondo processo concluso nell’ottobre del 1988. Sono molti gli aspetti irrisolti del caso Moro: dal coinvolgimento della banda della Magliana e della ‘Ndrangheta nel tentativo di trovare la “prigione” della Br, così come il ruolo dei servizi segreti, in apparenza impreparati a gestire la crisi terroristica.  Nel 1990 i carabinieri trovarono per caso in via Montenevoso, a Milano, un covo brigatista nascosto da un tramezzo di cartongesso in un appartemento: all’interno era custodita la maggior parte delle lettere e memorandum scritti da Moro durante i giorni di prigionia.