«L’uscita dal carcere di Giovanni Brusca è quello che la legge prevede per un collaboratore di giustizia. Ma è una prova generale di quello che accadrà tra undici mesi, quando l’ergastolo ostativo verrà cancellato dal nostro sistema». Lirio Abbate, vicedirettore de L’espresso, è stato il primo a dare la notizia della liberazione anticipata dell’ex boss di Cosa nostra. In un incontro con gli studenti della Scuola di giornalismo “Walter Tobagi” dell’Università degli Studi di Milano, ha detto la sua sul dibattito politico che ne è seguito.
Costi e benefici – «Io ti svelo i segreti dell’associazione di cui ho fatto parte, mi autoaccuso dei reati che ho commesso e fornisco i riscontri, in modo che le mie dichiarazioni valgano nel processo come prove. In cambio, ottengo i miei sconti. In base a questo “contratto” con lo Stato, Giovanni Brusca ha detto chi erano gli assassini di Giovanni Falcone e ha svelato gli intrecci tra mafia e politica. E così facendo ha evitato l’ergastolo». La sua liberazione, avvenuta il 31 maggio scorso dopo 25 anni di reclusione, secondo Abbate è una questione di costi e benefici nell’ottica della difficile lotta contro la criminaità organizzata. Aggiunge il giornalista: «Brusca è l’unico collaboratore di giustizia che ha scontato in carcere tutta la pena inflitta, fino all’ultimo giorno. Altri sono stati liberati anticipatamente o hanno scontato la pena agli arresti domiciliari. Ed erano pur sempre responsabili di reati gravissimi».
Ergastolo ostativo – Ma per Brusca, così come per tanti altri boss ed ex bos, la collaborazione con la giustizia era l’unica alternativa al “fine pena mai“. Questo in base all’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario, la norma, voluta proprio da Giovanni Falcone, che prevede il cosiddetto ergastolo ostativo: niente benefici penitenziari o liberazione anticipata per coloro che, condannati all’ergastolo per reati particolarmente gravi, non collaborino con la giustizia. Ma lo scorso aprile la Corte Costituzionale, dietro impulso della Corte europea dei diritti dell’uomo, ha dichiarato illegittima la norma, dando un anno di tempo al Parlamento per stabilire i casi e i modi in cui un detenuto possa, anche senza “pentirsi”, dimostrare il suo ravvedimento e quindi accedere ai benefici di legge. L’impatto della decisione, secondo Abbate, potrebbe essere rilevante: «Non ci sarà più incentivo a collaborare: tutti i detenuti ergastolani saranno considerati uguali. E se c’è in ogni caso la possibilità di uscire dopo 26 o 27 anni, perché mai un capomafia dovrebbe accettare di consegnare i suoi beni, confessare tutti i reati, far entrare i familiari nel programma di protezione e soprattutto mettere in pericolo la propria vita? Conoscendo le mafie, poi, il solo fatto che un boss torni libero dopo trent’anni per loro è una vittoria».
Una questione spinosa – «Ora la politica ha undici mesi per adeguarsi alla sentenza, ma deve farlo in modo efficace». E i pericoli sono tanti: «Per dimostrare il ravvedimento e l’assenza di contatti con l’esterno non può bastare un parere dell’assistente sociale e un’istanza valutata da un solo giudice di sorveglianza. L’assistente sociale, di fronte a un capomafia che vuole uscire dal carcere, potrà mai fare una relazione negativa? Potrebbe rischiare la vita. E saranno di nuovo in pericolo anche i giudici. La cosa che colpisce di più è che la decisione del Parlamento arriverà a trent’anni esatti dalle stragi di Capaci e di via d’Amelio. Speriamo non sia un passo indietro».