Il clima è teso al settimo piano del Palazzo di giustizia di Milano. Il 24 marzo la presidente Giovanna Di Rosa, insieme agli altri giudici del Tribunale di Sorveglianza, dovrà decidere sulla concessione o meno dei domiciliari per Alfredo Cospito. «Su questo però preferirei non rispondere», dice Di Rosa. La vicenda giudiziaria sull’anarchico funge da trampolino per parlare del sistema penitenziario e del ruolo della pena.

Cosa ha portato il nostro ordinamento a ossidarsi sull’uso della pena detentiva? È quella più idonea a perseguire la finalità rieducativa, prevista dalla nostra Costituzione?

Credo che ormai ci siamo abituati all’uso del carcere ed è un limite perché ci sarebbero misure alternative che potrebbero garantire meglio il reinserimento del condannato nella società, come l’affidamento in comunità. Se la detenzione è inevitabile per alcune situazioni, nella maggior parte dei casi sarebbe invece un’esperienza da evitare, soprattutto se parliamo di pene di breve durata. Quando parliamo di detenuti, spesso stiamo parlando di persone che avevano un’attività lavorativa avviata o una famiglia da mantenere. Bisogna puntare a non perdere quello che si è costruito.

La detenzione si riflette anche sul numero dei morti in carcere. Un terzo dei suicidi, secondo l’ultimo report di “Antigone”, riguarda persone con disturbi psichiatrici. La carenza di organico sanitario negli istituti penitenziari è una delle cause?

Credo che non sia solo un problema di personale ma di comprendere in che modo la psichiatria possa intervenire adeguatamente per evitare questi eventi. Prendiamo a esempio San Vittore. Nella casa circondariale si trovano persone in attesa di primo giudizio. Ci sono stati casi di detenuti a cui è stata data assistenza psichiatrica ma comunque non si è riusciti ad evitare episodi di autolesionismo e di suicidio. Il carcere non è la dimensione giusta per queste persone ma a volte non ci sono strutture alternative agli istituti penitenziari. Laddove sia possibile, bisognerebbe prediligere misure di più ampio respiro,  come l’affidamento in comunità, rispetto alle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems). Ma in entrambi i casi i posti sono limitati. Nel caso delle Rems, il nostro legislatore ha previsto il numero chiuso e non sono purtroppo state costruite in misura adeguata a quella che è la necessità. L’alternativa è che le persone che ne hanno bisogno, o restano libere in attesa di assegnazione o restano detenute prima che vengano trasferite.

La Corte Edu ha condannato pochi mesi fa l’Italia per le lunghe attese che i detenuti vivono prima di essere trasferiti nelle Rems. Crede che ci possa essere una mobilitazione verso il cambiamento, dopo la decisione della Corte?

Credo che il vero cambiamento possa esserci nel momento in cui si sceglie di investire sulla giustizia. Per le  strutture alternative e le figure professionali mancanti bisogna fare degli investimenti di spesa, ma questo poi affonda nella legge finanziaria e nelle leggi finanziarie dei tempi passati. La giustizia ha un costo, ma è uno dei servizi offerti dallo Stato su cui si definisce il livello di democrazia di un Paese.

La riforma Cartabia mira a incentivare la giustizia riparativa. L’Italia è pronta?

Spero veramente che riesca a decollare ma è una giustizia che costa: ci vogliono tempo e investimenti per i mediatori. Inoltre, serve soprattutto una cultura favorevole a questo nuovo paradigma di giustizia perché talvolta viene considerata una forma di buonismo. La giustizia riparativa è un ottimo sistema perché, mettendo in dialogo vittima e autore del reato, mira alla deflazione dei carichi processuali.

Nel decreto anti-rave, in riferimento all’ergastolo ostativo, il governo ha introdotto una presunzione relativa. Il detenuto potrà godere dei benefici penitenziari, pur non collaborando, qualora dimostri di non avere più collegamenti con la criminalità organizzata. È possibile effettivamente dare prova della recisione dei contatti?

È sicuramente un onere probatorio di difficile dimostrazione per la sua natura negativa. Bisogna dimostrare di non avere collegamenti con la criminalità organizzata. La difficoltà aumenta nel momento in cui l’onere probatorio ricada sull’interessato. Bisognerà vedere nel corso del tempo la tenuta e la concreta applicabilità di queste norme. Ci sono casi a cui dovrebbero essere applicate le nuove disposizioni ma sono ancora in corso.

Pochi giorni fa il tribunale di sorveglianza di Roma ha deciso per la liberazione condizionale del boss e poi collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza. Cosa ci lascia questa storia, come cittadini? Il Tribunale di Sorveglianza di Milano ha conosciuto casi simili?

Sì, assolutamente. Abbiamo avuto dei casi nei quali è stato talmente sorprendente e importante il percorso compiuto dal condannato, proprio per questi reati associativi, da risultarci strabiliante il risultato. Questi esempi di lieto fine ci danno l’idea della presenza dello Stato e si ottengono investendo su tutti gli strumenti che l’ordinamento penitenziario offre. L’intervento degli operatori penitenziari deve favorire la consapevolezza e la responsabilizzazione dell’autore del reato. Le decisioni dei tribunali di sorveglianza devono arrivare al momento giusto e i giudici devono saper seguire il percorso del detenuto. È un impegno collettivo che tutti devono mantenere con il massimo livello di professionalità, ma anche di convinzione interiore.

Uno dei requisiti della pena è la proporzionalità. Nel caso Cospito crede sia stata rispettata? Il 41 bis è un istituto figlio dei tempi o è necessaria ancora la sua applicazione?

Il 24 marzo decideremo se dare i domiciliari a Cospito o meno, quindi preferirei non rispondere in merito, essendo prossimi alla decisione. Sul 41bis le posizioni della giurisprudenza sono variegate. È una questione molto complessa e le stesse pronunce della cassazione si contraddicono tra loro.