Tutti assolti «perché il fatto non sussiste». Finisce così il processo iniziato nel 2018 che aveva coinvolto le due società petrolifere Eni e Shell per il presunto pagamento di quella che sarebbe stata la tangente più grande della storia italiana pagata a politici stranieri: 1,3 miliardi per una licenza di estrazione. Tra i 15 imputati c’erano anche l’ex amministratore delegato di Eni (e attuale presidente dell’A.C. Milan) Paolo Scaroni, il suo successore Claudio Descalzi e l’ex ministro del Petrolio di Nigeria Dan Etete.

La licenza per Opl 245 – Tutto cominciò nel 1998. Sani Abacha, presidente della Nigeria salito al potere grazie al colpo di Stato del 1993, concesse la licenza di estrarre petrolio dal giacimento Opl 245 (al largo delle coste nigeriane e uno dei più ricchi al mondo) alla società nigeriana Malabu Oli & Gas, di cui faceva parte anche l’allora ministro Etete. Con la morte di Abacha, la regolarità dell’assegnazione della licenza venne contestata e quindi ritirata. Nel 2003 fu Shell ad aggiudicarsi la nuova gara d’appalto e versò al governo nigeriano 210 milioni di dollari di bonus alla firma per poter iniziare a esplorare i fondali. L’ex ministro Etete, però, riteneva che il ritiro della licenza alla Malabu fosse illegittimo e nel 2006 gli fu riassegnata. Mentre Shell faceva ricorso a un arbitrato internazionale, nel 2010 Eni entrò in scena firmando un accordo con la Nigeria tramite l’intermediario Emeka Obi per ottenere il 40% di quella licenza, lasciando il resto alla Malabu. In quello stesso anno ci fu però un cambio di governo: il nuovo ministro del Petrolio Diezani Alison-Madueke (già manager di Shell) concesse la licenza completa alla compagnia nigeriana, ignorando l’accordo con Eni. Così, le due società europee avviarono una trattativa con il ministro della Giustizia Mohammed Adoke Bello. Si raggiunse un accordo il 29 aprile 2011: con il pagamento di 1,3 miliardi di dollari alla Nigeria (1,1 pagati da Eni in aggiunta a quel bonus già versato da Shell) ottennero la licenza.

Le prime indagini – La contesa sembrava finita. L’intermediario Obi, però, fece causa poco dopo alla Malabu. Rivolgendosi a un tribunale di Londra, chiese il risarcimento di 215 milioni di dollari perché non avevano rispettato quell’accordo firmato nel 2010. Il giudice inglese congelò un conto fiduciario del governo nigeriano alla JpMorgan di Londra, in cui era stato versato da Eni 1 miliardo e 100 milioni. Successivamente venne concesso a Obi di ricevere il pagamento di 112 milioni come commissione, circa la metà di quanto aveva richiesto. Il tribunale di Londra riconobbe quindi che Obi aveva fatto da mediatore nell’operazione. Nel frattempo, però dal conto di JpMorgan sparirono 801 milioni di dollari, che dopo un lungo giro tra banche del Libano e della Svizzera finirono alla Malabu. Dopo diversi esposti alla procura di Milano (oltre che negli Stati Uniti e nel Regno Unito) mossi dall’associazione Re:Common, che si occupa di campagne contro la corruzione, partirono le indagini. Nel 2014 la procura di Milano, tracciando gli spostamenti di quegli 801 milioni, scoprì che metà di quella cifra era finita ad alcune società offshore di Aliyu Abubakar, imprenditore vicino al presidente nigeriano Goodluck Jonathan, e il resto all’ex ministro Etete. Nel dicembre del 2017 il tribunale di Milano rinviò a giudizio con l’accusa di corruzione internazionale alcuni manager di Eni e Shell, tra cui Scaroni e Descalzi, oltre a Etete e vari intermediari.

La tesi dell’accusa – Secondo l’accusa, la cifra di 1,3 miliardi di dollari era troppo bassa per l’ottenimento della licenza in una zona prolifica come quelle coste del Golfo di Guinea. 300 di quei milioni sarebbero andati al governo nigeriano, mentre il resto della somma sarebbe stata usata per corrompere politici e intermediari. Inoltre, 50 degli 800 milioni passati per JpMorgan e arrivati poi alla Malabu sarebbero stati incassati dai manager Eni. La procura di Milano aveva chiesto pene fino a dieci anni di carcere per corruzione internazionale, basandosi anche sulle analisi delle comunicazioni interne alle due società italiane. Le testimonianze su presunti scambi di denaro tra il governo nigeriano e alcuni uomini dell’Eni sono state smentite, come quella dell’ex manager Vincenzo Armanna che era anche uno degli imputati. Nel corso delle indagini, la procura di Milano aveva ottenuto anche il sequestro del denaro incassato da alcuni intermediari delle operazioni, come anche quello di Obi. Tutte le ricostruzioni sono state cancellate dal tribunale: per l’acquisizione della concessione petrolifera Opl 245 non c’è stata corruzione.

La fine del processo – Dal 2018 sono state 74 le udienze che hanno portato all’assoluzione in primo grado del 17 marzo. «Speriamo di aver finito questo calvario», commenta il legale di Scaroni, Enrico De Castiglione, al quale si sono aggiunte le parole di Paola Severino, avvocato di Descalzi: «Finalmente è stata restituita la sua reputazione professionale». Per quanto riguarda Shell, l’amministratore delegato Ben van Beurden ribadisce di aver «sempre sostenuto che l’accordo del 2011 fosse legittimo». Le motivazioni dell’assoluzione saranno depositate in 90 giorni.