Il «capo dei capi» Totò Riina, dopo 25 anni, potrebbe essere scarcerato. È molto malato e ha diritto «a una morte dignitosa». Con questa motivazione la prima sezione penale della Corte di Cassazione ha annullato l’ordinanza del tribunale di sorveglianza di Bologna che aveva respinto la richiesta di differimento dell’esecuzione della pena o di detenzione domiciliare per le gravi condizioni di salute del boss mafioso. Il mantenimento in carcere non sarebbe compatibile con le condizioni di salute di Riina. Secondo la Cassazione, nella decisione del giudice l’attualità del pericolo non è motivata a sufficienza. Ci si chiede quindi se un ottantacinquenne, affetto da duplice neoplasia renale, con una situazione neurologica altamente compromessa possa ancora costituire un pericolo tale da giustificarne la detenzione in regime di 41 bis. Una sentenza che fa indignare i parenti delle vittime e accende il dibattito all’interno della stessa magistratura.

Le critiche alla sentenza- «Riina è ancora il capo di Cosa Nostra. Deve continuare a stare in carcere», dice Franco Roberti, procuratore nazionale antimafia. Il procuratore ritiene che le condizioni di salute di Riina non siano incompatibili con il regime del 41 bis  e che se il penitenziario di Parma non fosse attrezzato, lo si potrebbe trasferire in un’altra struttura di massima sicurezza. Ancora più critico il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri che, intervenendo nell’Aula Caldora dell’Università della Calabria, ha detto: «È ora di finirla con l’ipocrisia di chi sale sui palchi a commemorare Falcone e Borsellino e poi fa discorsi caritatevoli: un boss come Riina comanda anche solo con gli occhi».

Le reazioni dei familiari delle vittime- «Penso che mio padre una morte dignitosa non l’ha avuta, l’hanno ammazzato lasciando lui, la moglie e Domenico Russo in macchina senza neanche un lenzuolo per coprirli. Quindi di dignitoso, purtroppo, nella morte di mio padre non c’è stato niente», ha dichiarato Rita Dalla Chiesa, figlia del generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, ucciso a Palermo nel 1982, in un agguato mafioso. «È come se lo stessero graziando», ha dichiarato in un’intervista a Repubblica Tina Montinaro, la vedova del caposcorta di Giovanni Falcone. «Non penso che Riina abbia mai pensato ad assicurare una morte dignitosa a mio marito, a Giovanni Falcone e a tutte le altre vittime che ha fatto saltare in aria. Non posso dimenticare quello che è accaduto nel 1992. Nessuno dovrebbe dimenticare», ha aggiunto. Durissima la reazione di Salvatore Borsellino, fratello del magistrato ucciso in via D’Amelio, che ha detto al Corriere: «Lo Stato dopo 25 anni da quell’orrore in questo caso si appresterebbe a pagare una cambiale contratta con un mafioso per armare la sua mano».

Il boss che non ha mai abdicato- «Totò u’ curtu», così viene soprannominato il capo di Cosa Nostra per la sua scarsa statura, inizia la sua carriera criminale a soli 19 anni, uccidendo in una rissa un coetaneo. Condannato a 12 anni, sconta parzialmente la sua pena all’Ucciardone. In seguito si lega a Luciano Liggio e con lui è protagonista di una cruenta guerra di mafia nei primi anni Sessanta. Dopo l’arresto di Liggio, diventa il capo della cosca di Corleone. Da lì comincia la sua ascesa, favorita da importanti appoggi politici: uno fra tutti, Vito Ciancimino, allora sindaco di Palermo. La sua invincibilità è messa a dura prova dal maxiprocesso. Per salvarsi Totò Riina decide di eliminare quei magistrati che gli stanno mettendo i bastoni fra le ruote. Prima ordinerà la morte di Giovanni Falcone, poi quella di Paolo Borsellino. La sua ventennale  latitanza avrà un epilogo con l’arresto il 15 gennaio 1993 a Palermo, in viale Regione Siciliana. A catturare il boss è la squadra del Capitano Ultimo. Dal carcere Riina continua a comandare: ordina la morte del pm Nino Di Matteo, minaccia don Luigi Ciotti.