Confermati gli arresti domiciliari per Emilio Riva, patron dell’Ilva, il figlio Nicola e l’ex direttore dello stabilimento tarantino dell’acciaieria, Luigi Capogrosso, accusati di disastro ambientale. E’ stata resa nota il 17 gennaio la decisione dei giudici della prima sezione penale della Cassazione, che confermano quanto deciso il 29 ottobre 2012 dal Tribunale del Riesame.
La Suprema corte ha rigettato i ricorsi presentati dai legali dei Riva e Capogrosso. Dopo sei mesi di arresti domiciliari, sarebbe venuto a mancare il presupposto della misura cautelare, perché non c’è più il rischio di inquinamento delle prove, secondo gli avvocati.
Il provvedimento impugnato era stato emesso, lo scorso 26 luglio, dal Tribunale della libertà di Taranto. Contemporaneamente il giudice per le indagini preliminari, Raffaella Todisco, aveva ordinato il sequestro degli impianti, senza facoltà d’uso, bloccando, di fatto, l’attività del colosso siderurgico.
“La gestione dell’Ilva di Taranto è sempre stata caratterizzata da una totale noncuranza dei gravissimi danni che il suo ciclo di lavorazione e produzione provoca all’ambiente e alla salute delle persone”, aveva scritto il gip nell’ordinanza di sequestro.
Il governo Monti, dopo un lungo braccio di ferro con le parti sociali, ha poi emesso il cosiddetto “Salva Ilva”, per evitare la perdita di migliaia di posti di lavoro. La procura di Taranto, però, ritiene incostituzionale il decreto, quindi, si attende la decisione della Consulta.
Nel frattempo, i prodotti dell’azienda restano sotto sequestro e le consegne non possono essere evase. Il 16 gennaio, è arrivata la notizia dell’annullamento dell’ordine di 25 mila tonnellate di tubi d’acciaio, che servivano per realizzare un oleodotto negli Stati Uniti. L’azienda dell’Oklahoma ha fatto sapere, che, non avendo ricevuto neanche la prima parte della merce, considera il contratto risolto. Si tratta, proprio, delle 9.500 tonnellate di tubi sotto sequestro nell’area portuale di Taranto.
Silvia Sciorilli Borrelli