Alzi la mano chi usava la parola “assembramento” prima di marzo 2020. Arcaica come il suo antenato francese assembler (che ha almeno mille anni), giuridica e burocratica come il linguaggio attraverso il quale è sopravvissuta fino a oggi. Se state tirando su il braccio, forse siete avvocati, giuristi, o avete molta confidenza con la lettura di testi di legge. Assembramento entra nel linguaggio comune ufficialmente a partire dal 9 marzo 2020, quando Giuseppe Conte emana il dpcm (decreto del presidente del consiglio dei ministri) che lui stesso chiama #iorestoacasa: tutta Italia diventa zona rossa. Per quanto un testo giuridico possa essere d’interesse comune, non è normale che una parola così inusuale venga utilizzata con tanta frequenza. È come se dall’oggi al domani si usasse regolarmente “locazione” al posto di “affitto”. Esiste già l’affollamento, la calca, la ressa, persino l’ammassamento, ma tempi nuovi impongono un linguaggio nuovo. Nell’assembramento c’è un’accezione negativa che non sarebbe stata possibile con gli altri sinonimi, la sua etimologia suggerisce l’andare insieme verso uno stesso punto, ma «con mire sinistre». Non è passato nel gergo popolare come la sorella “assemblea”, che evidentemente ha la stessa origine, ma è rimasto protetto nei fogli delle leggi che riguardavano la sicurezza.
Un nuovo vocabolario – È un meccanismo naturale quello per cui la lingua si arricchisce ogni volta che c’è qualcosa di nuovo che ha bisogno di essere descritto. Non si tratta solo di neologismi, come può essere il “telecomando” qualche tempo dopo l’invenzione del televisore, o in tempi recenti il nome di una patologia che non esisteva, la Covid-19 (appunto ‘Corona Virus Desease’, malattia da coronavirus). Ci sono parole in disuso o appartenenti ad ambiti specifici che si reiventano, oppure prestiti e adattamenti da altre lingue che improvvisamente finiscono sulla bocca di tutti.
Le parole dall’inglese – Si comincia dal droplet, termine comune che significa in inglese un’innocente “gocciolina”, minacciosa solo quando viene utilizzata in ambito medico per indicare le “goccioline respiratorie”. Il batteriologo tedesco Carl Flugge scoprì nel 1899 che possono essere un mezzo di trasmissione per le malattie. Oggi lo sappiamo molto bene. Certo, potremmo tradurre la parola, ma ormai è diventata un tecnicismo e in quanto tale viene rispettata. Altre locuzioni in italiano esistono perfettamente, per esempio il concetto di “unità operativa” adibita a un compito (in inglese task) specifico: come quella guidata dal manager Vittorio Colao per la ricostruzione economica dell’Italia nella cosiddetta “fase 2”. È più eloquente però chiamarla task force, espressione nata nella marina militare statunitense per i gruppi che svolgevano missioni autonome. Ha più forza nella sua lingua di nascita perché non esiste un corrispettivo italiano. Anche lo smart working, il lavoro agile o intelligente, sarebbe traducibile, ma sembra già troppo tardi perché s’imponga nella versione italiana. Il lavoro da casa a cui abbiamo assistito durante la pandemia nella maggior parte dei casi non è stato molto smart: semplicemente si è trasferito tra le mura domestiche quel che si sarebbe fatto in ufficio, mentre nel concetto di agilità del lavoro si dovrebbe completamente ripensare il sistema di scadenze, obiettivi, gestione degli orari durante la settimana. Ci sarà tempo per farlo meglio. Con lo smart working, specialmente in ambito universitario, sono arrivati anche i webinars, videoconferenze con la possibilità di interagire: una formazione semplice dall’unione delle due parole web e seminar (che in italiano ha dato origine anche all’orrendo calco webinario). Una crasi più fantasiosa tra due parole, sempre in inglese, è arrivata per la necessità di descrivere una cosa completamente rivalutata, se non del tutto nuova: il sorriso con gli occhi, l’unico possibile con indosso una mascherina, è diventato lo smeyes (smile + eyes), anche se non si tratta di un’assoluta novità linguistica.
Le parole della chiusura – Anche il linguaggio dei politici, poi travasato su tutti i mezzi di informazione, ha contribuito a influenzare il nostro nuovo modo di esprimerci. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il ministro della Salute Roberto Speranza hanno parlato spesso in pubblico di lockdown del Paese, laddove chiusura sarebbe stato sufficiente a spiegare i nuovi provvedimenti presi dal governo. Qui la sfumatura linguistica è interessante, perché lockdown ha cominciato a essere usato con frequenza negli anni Settanta per descrivere la condizione di confinamento dei detenuti, poi l’isolamento per ragioni di sicurezza (ma degli altri, non di chi finiva in lockdown). Ha mantenuto la sua accezione punitiva anche perché inizialmente è stato riferito alle severe misure restrittive introdotte dalla Cina nella città di Wuhan, dove il contagio del nuovo coronavirus è cominciato.
Più naturale, invece, che fosse ripresa la parola quarantena, il periodo di quaranta giorni che la repubblica di Venezia introdusse come pratica sanitaria dopo le pestilenze del Trecento e del Quattrocento per scongiurare che dal mare arrivassero nuovi contagi. Prima di poter mettere piede nella Serenissima, i nuovi arrivati venivano fatti sostare nelle isole della laguna (da quella chiamata Santa Maria di Nazareth sembra provenire il nome lazzaretto) per una quarantena de zorni, e come suonava nell’inflessione locale è rimasta fino a noi. Sulla ragione per cui il numero fosse proprio 40 non si è certi: ci sono evidenti rimandi biblici (la quaresima), ma c’è chi parla anche di influenze astrologiche babilonesi. Sicuramente era un periodo sufficiente al manifestarsi di un’eventuale malattia e anche oggi appare un lasso ragionevole, dato che per il Covid si parla di 15 giorni di incubazione.
Il burocratese – Alla fine la nostra quarantena è durata poco più di due mesi. E bloccati in casa, tutti abbiamo avuto il tempo per attendere i decreti spiegati dal presidente del Consiglio, li abbiamo letti per capirci di più e infine commentati, come forse non era mai successo nella storia italiana. Da qui l’adozione, spesso scherzosa e derisoria, di un lessico burocratico che ha creato più fraintendimenti che spiegazioni. Prima per decidere chi fossero esattamente i congiunti cui si poteva far visita dal 4 maggio (parenti come dice il dizionario, o anche amici e fidanzati, come vorrebbe l’etimologia? E fino a quale legame di parentela?). Poi per capire quando i congiunti diventassero affetti stabili – come aveva precisato il governo con un non-chiarimento – e come descrivere il proprio rapporto di coppia nell’autocertificazione. Figli delle stesse carte sono gli ormai comuni, e asettici, distanziamento sociale, dispositivo di protezione individuale e la nuova arrivata, nella fase di ritorno alla normalità, sanificazione. Quest’ultima forse ripescata per incutere maggiore gravità rispetto alla semplice pulizia.
La psicosi e la movida, ai tempi del Covid – Per una serie di parole usate e strausate, ce ne sono anche di abusate: tre in particolare hanno scandito la percezione del virus. La prima è legata al periodo di minimizzazione dell’emergenza nell’ultima settimana di febbraio, quella degli aperitivi a Milano del sindaco Beppe Sala e del segretario Pd Nicola Zingaretti e dell’hashtag #riapriretutto del leader leghista Matteo Salvini. Si parlava di psicosi, di un’eccessiva paura diffusa nel Paese per un virus poco più che influenzale, e si guardava con stupore chi indossava mascherine. La psicosi è in realtà una patologia mentale più seria, che ha a che fare con il sovvertimento dei rapporti tra rappresentazione ed esperienza di una persona. Una parola usata con leggerezza, sia in relazione al suo significato, sia nel merito del contagio cui abbiamo assistito. Spopola invece in queste ultime settimane, tra giornali e televisioni, la movida, che descrive con accezione spiccatamente negativa la vivacità serale di alcuni centri cittadini. Si tratta di un participio passato dal verbo muovere (e quindi significa “mossa, movimento”) importato dalla Spagna, dove nacque negli anni Settanta e Ottanta per descrivere il clima di ritrovata vitalità in seguito alla fine del regime franchista. La movida delle città spagnole da lì in poi è diventata proverbiale, quella italiana è solo dei giovani e quasi sempre depravata. I bar riaprono ma non devono essere frequentati, e intanto il significato della parola si sperde nella sua diffusione. Ma più di ogni altra, in Italia c’è una sola locuzione che è stata costante nel racconto della pandemia, dall’inizio a oggi e qualunque fosse l’argomento. Ai tempi del coronavirus. Sarebbe una citazione dal premio Nobel per la letteratura Gabriel Garcìa Màrquez, scomparso nel 2014 e autore del romanzo L’amore ai tempi del colera, un titolo che si presta particolarmente al racconto di un’epidemia. E infatti è stato speso fino a che di Garcìa Màrquez non ci si è completamente dimenticati, tra discorsi, titoli di articoli di giornale, racconti privati sui social e così via. Il collegamento è immediato ed evidente, ha un certo fascino quando si parli realmente di amore, ma non ci è voluto molto a trasferirlo su altri fronti. E quindi ecco La maturità al tempo del coronavirus, la spesa ai tempi del Covid, Trovare lavoro ai tempi del coronavirus e tutto quello che è umanamente possibile fare nella vita, ma trasferito ai tempi del coronavirus. È brutto, è noioso ed è svilente per un pezzo importante della letteratura mondiale. Ma racconta bene della necessità di attualizzare, di esserci, di dare un nome alle esperienze di un momento del tutto nuovo, talmente denso da essere inconoscibile ma tuttavia già profondamente inciso nella grande memoria collettiva.