«Una guerra d’amore e dignità». È così che Luciana Delle Donne, 51 anni, leccese, descrive il lavoro delle «sue ragazze», donne detenute in carcere che dal 18 marzo hanno prodotto con le loro mani più di 7mila mascherine per sostenere la lotta contro il coronavirus. Un progetto che è anche un modello economico: «Chi dona il tessuto per le mascherine ha uno sgravio fiscale, le donne che lavorano vengono pagate e chi compra il prodotto ha qualcosa che dura nel tempo», spiega Luciana. «In termini di marketing sociale si fa a gara a chi dà di più», con un secondo profitto per le detenute.

Il progetto – Tutto comincia con lo scoppio della pandemia, all’inizio di marzo. Luciana, che dal 2006 con la cooperativa “Officina creativa” insegna alle detenute delle carceri di Lecce e Trani a diventare sarte e artigiane, vuole fare la sua parte per fronteggiare l’emergenza sanitaria e la penuria di mascherine, grave in alcune zone del Sud. Nelle carceri di Lecce e Trani ci sono 25 donne che da anni fanno a mano cuscini, borse da donna, cravatte e papillon con le rimanenze di tessuti donati da aziende in tutta Italia. Il tutto coadiuvate da Luciana, a titolo volontario, e da alcune collaboratrici esterne che, per un compenso simbolico, assistono le detenute a lavoro. Poi il coronavirus: per questioni di sicurezza vengono vietati gli assembramenti di ogni tipo e Luciana non può più andare in carcere a trovare «le sue ragazze». Non si può uscire di casa se non «per comprovate esigenze lavorative» e nelle carceri italiane iniziano le rivolte. Luciana ha paura, ma reagisce: «Ho chiamato subito le direzioni delle carceri di Bari, Lecce, Matera e Trani e ho chiesto di cominciare a produrre mascherine».

L’emergenza – La risposta è entusiasta e le officine si rimettono in moto. In meno di un mese una trentina di donne realizza seimila mascherine in cotone e lycra, con filtri TNT clinicamente testati. Cinquemila vengono immediatamente donate al comune di Lequile, a cinque chilometri da Lecce. Qui si trova la fabbrica Paladini, sede operativa di “Officina creativa”, dove prima della pandemia lavoravano detenuti in regime di semilibertà. Da fine marzo è la postazione di Luciana e delle sue aiutanti, che dirigono a distanza le carcerate con video tutorial in cui mostrano come realizzare le mascherine. In ogni prigione le donne sono sorvegliate da agenti che consegnano loro filtri e tessuti. «Lavorano sei ore al giorno per gli altri e sono orgogliose di farlo», racconta Luciana, che da ex dirigente di banca ha importato un piccolo modello di «economia rigenerativa» dietro le sbarre: «Oltre alle cinquemila mascherine che abbiamo donato, dai primi di aprile ne abbiamo vendute circa duemila». Il ricavato, oltre a coprire le spese logistiche di “Officina creativa”, diventa uno stipendio per le detenute, chiudendo un circolo virtuoso in cui a guadagnare è ogni attore coinvolto. «Lavorando per gli altri, soprattutto in questa fase d’emergenza, danno un esempio ai figli e spezzano così la catena del destino che porterebbe a delinquere chi ha un genitore in carcere. C’è chi è riuscito ad andare in vacanza studio a Londra con i soldi della mamma, chi si è comprato il motorino, chi i libri per l’università», prosegue Luciana.

L’insegnamento – Sono tutte madri le donne in carcere, alcune anche nonne. «A volte è dura seguirle, perché ognuna è fragile, a modo suo, ma ormai conoscono le regole e le ricordano a noi», sostiene Ilaria Palma, 48 anni, responsabile di produzione di “Officina creativa”. «Alla fine della giornata tutte sappiamo di aver fatto qualcosa di utile per gli altri in momento difficile. Loro, più di me, perché diventano sempre più responsabili», continua. «È il valore del cucito. Serve a raddrizzare la stoffa. E la vita».