Vietare il velo sul posto di lavoro, da oggi, si può. Non se a chiederlo è un cliente, ma se è l’azienda a volere che i propri dipendenti si vestano «in modo neutro» sì. A stabilirlo, con la sentenza del 14 marzo, è la Corte di giustizia dell’Unione europea. Si tratta del primo pronunciamento della Corte Ue sul tema del velo islamico in ufficio.
«Non è discriminazione» – L’istituzione giuridica con sede a Lussemburgo, che ha il compito di assicurare la corretta applicazione del diritto Ue, ha decretato che «una regola interna all’azienda che proibisca di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso non costituisce diretta discriminazione». La Corte fa, però, un’eccezione: nel caso in cui il divieto comporti uno svantaggio per i seguaci di una determinata religione o ideologia, allora la misura sarebbe discriminatoria, sebbene in modo indiretto. Il significato di tale divieto, continua l’istituzione Ue, deve essere «il perseguimento, da parte del datore di lavoro, di una politica di neutralità politica, filosofica e religiosa nei rapporti con i clienti».
Gli antefatti – Il pronunciamento della Corte di giustizia europea arriva in risposta a due ricorsi presentati da altrettante donne, una belga e una francese. La prima è Samira Achbita, ex receptionist della G4S, azienda che si occupa di sicurezza con sede a Vilvoorde, appena fuori Bruxelles. Nel 2006, tre anni dopo l’assunzione, Achbita aveva cominciato a indossare in ufficio l’hijab, il velo di tradizione islamica che copre capo e spalle. Allora era stata licenziata. Secondo la donna si trattava di discriminazione religiosa, ma l’azienda aveva replicato che il regolamento interno proibiva ai dipendenti di indossare «qualunque segno della propria appartenenza politica, filosofica o religiosa» e che è legittimo il desiderio del datore di lavoro di «dare un’immagine di neutralità nei confronti dei clienti, pubblici e privati». Achbita aveva quindi portato la sua vicenda in tribunale, supportata da un’associazione attiva nel campo della parità razziale. La Corte di cassazione belga aveva quindi girato il caso all’Unione europea.
Licenziata senza preavviso – Il secondo ricorso è quello di una donna musulmana francese, impiegata in uno studio di ingegneria. Dopo che un cliente si era lamentato e aveva chiesto che all’incontro successivo «non ci fosse nessuno con il velo», la donna, che portava da sempre l’hijab, era stata licenziata. Un tribunale francese e poi una corte di appello avevano riconosciuto un indennizzo alla donna per la mancanza di preavviso nel licenziamento, ma avevano stabilito che il licenziamento fosse avvenuto «per giusta causa».
In Italia – Confindustria Lombardia, per ora, ha deciso di non commentare la sentenza. In via ufficiosa, dalla sede di via Pantano dicono di non ricordare casi di cronaca simili a quelli belga e francese che abbiano coinvolto aziende italiane.