Ergastolo o assoluzione. Queste le richieste degli avvocati per Alessandro Cozzi nella penultima udienza del processo che lo vede imputato per l’omicidio di Alfredo Capelletti. Sette le ore dedicate alle requisitorie dei legali di difesa e parti civili. Sette ore intense, in cui entrambi i difensori hanno riassunto il caso della morte dell’imprenditore e gli elementi a loro favore. Ma le posizioni sono opposte. (qui tutto quello che c’è da sapere)
Le parti civili – A condurre la requisitoria per le parti civili (la famiglia della vittima, ndr) è l’avvocato Luciano Brambilla. «Due le archiviazioni, ma secondo il gup stesso c’erano assordanti analogie con il caso Vitiello (l’imprenditore ucciso nel 2011 da Alessandro Cozzi, reo confesso ndr). Ecco perché impose l’imputazione coatta (l’obbligo di andare a processo)», spiega Brambilla. E prosegue: «Quasi tutti i teste ascoltati in aula hanno convenuto che la dinamica era più compatibile con l’omicidio che con il suicidio. Più precisamente con un’aggressione inaspettata e alle spalle».
Proprio la dinamica e l’analisi delle macchie di sangue, il modus operandi e l’esame delle celle telefoniche hanno aiutato a ricostruire come funziona la mente di Alessandro Cozzi. Lui, l’imputato, che nella precedente udienza era stato citato nella perizia psicologica come “soggetto pericoloso e capace di colpire ancora”. «Fondamentale è stato lo staging» prosegue Brambilla, che dopo aver ripercorso fatti e prove si sofferma sulla scena del delitto «in inglese indica la messa in scena, cioè il falsare il luogo del delitto per far sì che appaia in un altro modo, che dia l’impressione voluta. Però si commettono errori. E Cozzi l’ha fatto», aggiunge «ne sono testimoni le incongruenze, come la mano pulita che avrebbe estratto il coltello insanguinato o le red flags, in letteratura il pattern ematico. O ancora il rigor mortis, che solitamente parte dalla mascella per passare a braccia e gambe. Capelletti l’aveva solo alla mascella e agli arti inferiori, braccia escluse, ciò è dovuto allo spostamento del cadavere. Sempre per inscenare il suicidio».
Conclude Brambilla, in una requisitoria che dura più di due ore, chiedendo la conferma dell’ergastolo, il massimo della pena, come chiesto dal pubblico ministero Maurizio Ascione nell’udienza del 9 giugno scorso.
La difesa – Poi arriva il turno della difesa, guidata dall’avvocato Fabio Palazzo. Un percorso, quello di Palazzo, che parte dalle basi della giurisprudenza. «Il caso Vitiello è totalmente diverso dal decesso di Capelletti. Non c’è prova diretta né dell’esistenza del reato, cioè che sia stato ucciso, né tantomeno che di questo sia colpevole l’imputato. L’articolo 533 cpp condanna se l’imputato risulta colpevole del fatto al di là di ogni ragionevole dubbio. Deve esserci la certezza, se non c’è fatto certo non si può raggiungere un verdetto certo. La giurisprudenza su questo punto è chiarissima», spiega Palazzo. E prosegue: «L’unicità della lesione mortale è straordinariamente tipica del suicidio perché raramente si arriva ad uccidere con un unico colpo di coltello, è un’arma con una capacità letale limitata. Di conseguenza, i casi di omicidio con arma bianca mostrano numerosi colpi che qui mancano».
Palazzo cita alcune sentenze in cui, in mancanza di una certezza totale, l’imputato è stato assolto. Poi continua confutando gli elementi portati in aula da pm e parti civili. «Le tracce di sangue potrebbero essere state provocate dai soccorritori, nel tentativo di salvare Capelletti» e aggiunge «Perché si sarebbe suicidato? La situazione in famiglia non era positiva, era intenzionato a divorziare e l’ischemia di alcuni mesi prima lo preoccupava profondamente. Temeva lesioni permanenti».
Dopo più di tre ore, Palazzo conclude: «Non è possibile che l’imputato l’abbia ucciso, era il suo migliore amico. Capelletti l’aveva aiutato a crescere e formarsi. Anche per questo, e perché il fatto non sussiste, chiedo l’assoluzione del mio asisstito».
Il verdetto – Un’udienza che si conclude con l’appuntamento al tre luglio quando la giuria, composta da sei giurati popolari e due giudici togati (Giovanna Ichino e Ilaria Simi de Burgis), si pronuncerà sul cold case.