Tutte le persone che hanno donato il sangue almeno una volta nella vita conoscono le procedure per poter fare un prelievo a regola d’arte. Medici e infermieri consigliano sempre di essere ben idratati, di evitare sforzi fisici intensi il giorno prima della convocazione, di non arrivare in ospedale a stomaco vuoto ma di non andare oltre una leggera colazione, ricca di liquidi e povera di grassi e zuccheri. Quello che i donatori non sanno è dove va a finire la sacca contenente i 450 millilitri di globuli rossi, globuli bianchi e piastrine quando esce dalla porta del centro trasfusionale; il percorso che il sangue, dopo i dovuti accertamenti, effettua per finire nel braccio di un paziente e migliorare, se non quando salvare, delle vite umane. Un percorso che vale la pena racontare, prendendo come esempio quanto accade in una grande struttura sanitaria come il Policlinico di Milano in via Francesco Sforza.

Due giovani donatrici appena finito il prelievo (foto di Associazione amici del Policlinico)

Fase 1: l’accettazione – Al Policlinico di Milano le donazioni vengono effettuate nel padiglione numero 4, chiamato “Marangoni”. Al piano terra i volontari effettuano l’accettazione alla struttura: vengono loro chiesti i dati personali e la tessera sanitaria e poi si spostano in uno stanzino adiacente. Qui, un medico li sottopone a una rapida visita medica – fondamentale rispettare i paletti imposti dal Ministero della Salute per quanto riguarda il peso, l’età e l’assunzione di farmaci, oltre al non avere fatto viaggi in zone specifiche o piercing e tatuaggi negli ultimi mesi, per non rischiare di “contaminare” il sangue –  mentre un’infermiera effettua il test dell’emoglobina, ovvero la quantità di ossigeno presente del sangue, indispensabile per una trasfusione di qualità. In questa fase è importante che il donatore rispetti tutti i requisiti perché il sangue è una delle poche componenti medico sanitarie non riproducibili in laboratorio, pertanto è necessario che tutti i valori – incluso quello dell’emoglobina – siano nella norma per poterlo poi trasfondere a un paziente.

Un giovane donatore durante il prelievo di sangue intero (foto di Associazione amici del Policlinico)

Fase 2: la donazione – Una volta superati i controlli il donatore si sposta al primo piano del padiglione, dove avviene il prelievo vero e proprio. Ogni volontario viene fatto stendere su un lettino o su una poltrona reclinabile (ce ne sono 16, per un totale di 130/140 donazioni al giorno), in modo che la forza di gravità faccia il grosso del lavoro favorendo il flusso del sangue verso la parte superiore del corpo, e viene introdotto l’ago nel braccio dopo un’attenta ricerca della vena. L’ago per molte persone è un problema serio, un ostacolo insormontabile. Non serve girarci intorno, è oggettivamente di dimensioni maggiori rispetto a quelli dei normali vaccini ma ciò non significa che sia più doloroso, anzi. L’attesa dell’ago è essa stessa la paura dell’ago, perché molte persone affermano come sia sufficiente voltarsi dalla parte opposta per non rendersi nemmeno conto che la donazione sia già iniziata. Superato lo shock di quei pochi centimetri di metallo sterilizzato e il prelievo è praticamente completato. Sempre stando comodamente in poltrona, prima vengono prelevate alcune provette di sangue intero per il controllo dei parametri – valori che verranno inviati al donatore qualche settimana dopo, in modo che possa avere una panoramica generale del suo stato di salute – poi l’infermiera provvede a collegare la sacca vuota al macchinario. Dieci minuti e 450 millilitri di sangue dopo (circa mezzo litro, meno del 10% di quello totale che abbiamo nel corpo) e il gioco è fatto. Il volontario viene sganciato dal macchinario e, dopo un breve periodo di osservazione per evitare che non abbia reazioni avverse (la più comune è una leggera forma di spossatezza), è libero di andare a reintegrare i liquidi (nel giorno stesso bisogna bere moltissima acqua, che favorisce la riformazione del sangue prelevato) e a consumare una buona colazione, offerta dall’ Associazione Amici del Policlinico, l’ente che si occupa della trasfusione. Il percorso del donatore finisce qui, ma per il sangue che esce dalla sala il viaggio non è ancora terminato.

Uno scompositore, il macchinario utilizzato per separare le emocomponenti del sangue intero

Fase 3: il laboratorio – A questo punto la sacca viene riportata al piano terra del “Marangoni”. Stavolta non più vuota ma piena di sangue intero, viene inserita in un apposito macchinario, chiamato scompositore. Per un decreto del Ministero della Salute del 2015, il sangue non può più essere trasfuso intero, ma viene diviso nelle cosiddette emocomponenti: globuli rossi, plasma e piastrine. Ecco spiegato l’utilizzo dello scompositore, che altro non è che una “centrifuga” che separa il sangue nelle sue tre componenti principali. Stefania Villa, biologa responsabile del settore Accettazione Sangue e del laboratorio di analisi e produzione degli emocomponenti del Policlinico di Milano, mi spiega che «il motto è “dalla vena alla vena”, dobbiamo conoscere tutto. La preoccupazione principale che abbiamo è quella di avere sempre la quantità di emocomponenti necessaria per soddisfare le richieste di tutti i reparti del Policlinico, che è molto elevata». La lavorazione del sangue donato viene utilizzata nei servizi di primo soccorso, di emergenza, per i trapianti d’organo e per gli interventi chirurgici, ma anche per la cura di malattie ematologiche (quelle appunto legate al sangue) e oncologiche. La domanda di sangue è considerevole, basti pensare che servono almeno 4 unità di globuli rossi per fare una trasfusione a un paziente durante un intervento chirurgico. In altre parole, per ogni operazione sono necessari quattro donatori. Questa proporzione sfavorevole però può essere contrastata con una buona pianificazione: il piano terra del “Marangoni” è occupato quasi esclusivamente dal laboratorio, più precisamente dai suoi frigoriferi, che sono colmi di emocomponenti. Il plasma, tenuto a una temperatura pari o inferiore a -25°, può essere conservato fino a 2 anni. I globuli rossi, a -60°, anche per 10 anni, mentre in condizioni normali (tra 2 e 6 gradi) resistono un massimo di 42 giorni. Stefania Villa e il suo staff, però, non si fermano solo alla scomposizione del sangue intero nelle emocomponenti tradizionali: «Quando le donazioni raccolte non raggiungono il volume standard le utilizziamo per preparare emocomponenti per uso non trasfusionale». Nel caso specifico del Policlinico si tratta del siero collirio (per la sindrome da occhio secco), di gel piastrinico (per le piaghe da decubito) e di PRP (Plasma Ricco di Piastrine, per l’artrosi e per i dolori cartilaginei alle ginocchia). Il mantra, da anni, è sempre lo stesso: «Il sangue è un bene preziosissimo, dobbiamo sfruttarne ogni goccia per la salute dei pazienti e per rendere giustizia al gesto dei donatori», dice la dottoressa Villa.

Un dettaglio di una sacca di sangue intero in seguito a centrifugazione per separare le emocomponenti. In alto il plasma, in mezzo il Buffy coat (il mix di globuli bianchi e di piastrine), in basso i globuli rossi

Oltre la donazione – Il numero dei donatori è in calo. Secondo i numeri forniti dall’Associazione Amici Donatori del Policlinico, l’ente che si occupa delle trasfusioni al Policlinico di Milano, oggi solo il 3% della popolazione si rende disponibile per dei prelievi di sangue da destinare alle trasfusioni. Nell’ultimo triennio la quantità di unità prodotte è calata dello 0.6%, mentre la richiesta è aumentata del 3.5%, complice anche il lento ma inevitabile, e inesorabile, invecchiamento della popolazione. Il “tassametro” del sangue al Policlinico dice 31.400 sacche raccolte e 94.400 emocomponenti prodotti. Numeri di tutto rispetto sul panorama nazionale, che vengono notevolmente ridotti se si pensa che sono serviti per le trasfusioni di poco più di 6.000 pazienti. Come detto, il sangue è un farmaco che non può essere sintetizzato in laboratorio e la sua richiesta rimane sempre molto elevata, sebbene legata con un doppio nodo alla buona volontà dei donatori. In fondo, basta godere di buona salute e concedersi 10 minuti per poter cambiare la vita di un’altra persona.