L’università italiana dritta verso il declino. Ha titolato così Donatella Di Cesare, filosofa e professoressa all’Università Sapienza di Roma, il suo duro attacco ai silenzi e alle improvvisazioni del sistema universitario italiano di fronte alla pandemia di coronavirus, pubblicato da L’Espresso il 7 giugno. «No, non è andata bene per l’università. E c’è da ritenere che il peggio debba ancora venire». È questo il suo avvertimento in vista della ripartenza del prossimo anno accademico, il primo dell’era post-Covid.

Professoressa Di Cesare, cosa dobbiamo aspettarci dal prossimo anno accademico?
Onestamente non lo so. So solo che è dietro l’angolo e avremmo già dovuto avere delle indicazioni certe per settembre. Non è successo e sono preoccupata. Vorrei essere ottimista, ma il futuro dell’università non è dei più rosei.

Il ministro Gaetano Manfredi però si è esposto sulla ripartenza a settembre.
Sì, ma non mi sembra che abbia detto qualcosa di nuovo. Ho sentito sempre i soliti discorsi vuoti, le solite dichiarazioni aleatorie. Ma delle linee guida per la ripartenza non sono arrivate, i veri problemi non sono stati affrontati.

Perché secondo lei?
Faccio il confronto con il mondo della scuola. Lì ci sono forti pressioni, per esempio quelle dei genitori: sono lavoratori che non potrebbero ovviamente stare a casa con i figli, se le scuole non riaprissero o lo facessero con questo “sistema misto”. Una soluzione per loro la troveranno. Dell’università invece è più facile lavarsene le mani e non parlarne, la gente pensa che sia una cosa diversa.

È un problema economico quindi?
In parte, sicuramente. Già ora è facile prevedere ingiustizie e discriminazioni tra università. Quelle che hanno più fondi e meno studenti, come quelle private, saranno meno colpite dalla crisi perché potranno anche adattare gli spazi fisici. Mentre le grandi università di massa faranno molta più fatica: dovranno barcamenarsi con questi sistemi misti e con nuovi e vecchi problemi.

Un esempio?
Già prima che accadesse tutto questo, gli studenti si ammassavano nelle aule. A settembre mi chiedo dove andranno. Per esempio, io faccio lezione nell’aula più grande del dipartimento di filosofia, che può contenere fino a 200 persone. Secondo le nuove norme sanitarie potranno entrare in 30: il problema è sotto gli occhi di tutti.

Ma la didattica mista, in presenza e a distanza, che ha proposto il ministro non è una soluzione?
No, per me è incomprensibile. Mi sembra solo una grande opera di rassicurazione, senza però cercare delle vere soluzioni. Cerco di andare oltre e vedo un grande rischio di degrado dell’istituzione. Certo, la cultura digitale è importante e, senza i mezzi tecnologici di cui disponiamo, non saremmo potuti arrivare fin qui in questi mesi. Però non c’è dubbio che ai giovani verrebbe a mancare il contatto fisico con lo studio, i testi e con le altre persone che frequentano questo ambiente.

Ha qualche preoccupazione particolare?
Mi vengono in mente le matricole che si iscrivono al primo anno di università. Non hanno idea di cosa li aspetterà, saranno i più esposti alle difficoltà di questo sistema. Vogliamo davvero condannarli alla didattica a distanza, senza dar loro la possibilità di essere coinvolti nell’ambiente universitario?

Il rettore del Politecnico di Milano, Ferruccio Resta, ha dichiarato che terrà aperta l’università anche il sabato per favorire la presenza degli studenti.
È una soluzione parziale, serve anche questa solo come rassicurazione. Alla Sapienza siamo già aperti il sabato mattina, non penso proprio che qualche ora in più il sabato pomeriggio faccia la differenza. Temo che certe misure “comode” per l’università, come le lezioni e gli esami a distanza, rimarranno e cambieranno profondamente non solo il volto degli atenei e della vita universitaria, ma anche la cultura stessa.

E quindi quale potrebbe essere una soluzione?
Io mi aspetto un’azione positiva e propositiva da parte degli studenti, perché saranno loro i protagonisti della nuova fase dell’università. Sono certa che porteranno una grande ventata di novità e di idee per mettere fine all’inaridimento della comunità universitaria.