Il 18 novembre il consiglio dei ministri ha approvato un nuovo pacchetto sicurezza che prevede una serie di norme per combattere la criminalità diffusa. Alcune di queste hanno creato polemica, soprattutto quella che riguarda la possibilità per le forze dell’ordine di girare armate anche fuori servizio e l’abolizione del rinvio della pena per le neomamme. Tra le disposizioni anche quelle che riguardano le rivolte in carcere. «Credo che il disegno di legge voglia mirare a soddisfare le istanze di alcuni sindacati autonomi di polizia penitenziaria». A dirlo è Paolo Conte, avvocato, che è il legale dei parenti di Vincenzo Cacace. L’uomo, che all’epoca era sulla sedia a rotelle e che è morto nel 2022 per cause naturali, era tra i detenuti che sarebbero stati picchiati il 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. È in corso un processo per l’accertamento dei fatti.
Nel ddl viene introdotta anche una nuova fattispecie di reato: “rivolta in istituto penitenziario”.
«Questa norma consentirebbe l’incriminazione di coloro che organizzano anche solo una semplice “battitura”, cioè la pacifica contestazione da parte dei detenuti realizzata battendo, appunto, le stoviglie contro la porta della cella. Nella disposizione, inoltre, si prevede la stessa pena sia per chi organizza una rivolta sia per chi solo pratichi “resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini”. C’è differenza, non si possono porre sullo stesso piano. E poi, credo che questo tipo di reato nasca proprio dai fatti avvenuti in quell’aprile 2020, a Santa Maria Capua Vetere. Era il periodo di pandemia, le condizioni in cella erano invivibili. In carcere tra i detenuti c’era agitazione, i colloqui erano stati sospesi. Il 5 aprile protestarono, in modo pacifico. Il giorno dopo è accaduto il pestaggio da parte degli agenti».
L’Unione delle Camere Penali Italiane, in merito a questa fattispecie di reato, parla di “irragionevole rigore punitivo nei confronti dei soggetti più deboli”.
«Questa disposizione, se dovesse entrare in vigore, criminalizzerebbe la sofferenza in carcere e punirebbe la resistenza passiva. Il nostro governo non conosce le condizioni della vita in cella, se non attraverso la lente dei sindacati autonomi di polizia penitenziaria. Il sovraffollamento, l’occupazione degli spazi al di sotto dei limiti consentiti…».
Se da un lato si penalizza l’opposizione agli ordini, dall’altro si pensa a modificare il reato di tortura.
«Nell’agenda di governo si vorrebbe abolire questa fattispecie. Nei casi di rivolta, così facendo, la polizia penitenziaria avrebbe più spazi di intervento. L’esecutivo, anziché proporsi di punire severamente comportamenti inoffensivi quali la resistenza passiva, dovrebbe farsi carico delle proprie responsabilità e rispondere agli obblighi imposti dalla Costituzione e dalla CEDU, che prevedono il divieto di infliggere pene o trattamenti inumani o degradanti. Il reato di tortura esiste, ci sono diversi processi in piedi per questo».
In conclusione, il nuovo “pacchetto sicurezza”, è un esempio di populismo giustizialista o di iniziativa legislativa nel nostro sistema giuridico?
«Si inserisce nella politica del governo, che si riassume nella ricerca del consenso elettorale. Questo si ottiene rispondendo agli eventi sociali con la repressione penale. Quando esiste un fenomeno criminale, però, bisognerebbe interrogarsi sulle cause che l’hanno portato a verificarsi, piuttosto che introdurre sanzioni che fungano da deterrente».