Porte sbarrate. Sono passati dieci giorni da quando Gabriele Del Grande, il giornalista e autore del documentario Io sto con la sposa, è chiuso in un centro di identificazione in Turchia. Al viceconsole italiano a Smirne e a un avvocato turco, che il 19 aprile sono andati nel carcere di Mugla, è stato impedito di incontrarlo. Vietato l’ingresso al centro, senza che le autorità locali fornissero una spiegazione. Eppure la visita era stata già annunciata da Luigi Mattiolo, ambasciatore italiano ad Ankara, ed è prevista dalla Convenzione di Vienna del 1963, firmata anche dalla Turchia. La situazione si complica e getta un’ombra su una possibile rapida soluzione della vicenda. Il ministro degli esteri Angelino Alfano è intervenuto chiedendo il rilascio immediato. Mobilitata anche l’Unione Europea. Federica Mogherini, Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue, ne ha ribadito l’impegno: «Quello che facciamo e che stiamo facendo è sostenere il lavoro delle autorità italiane rispetto alle autorità turche e accompagnarlo sia localmente sia a Bruxelles».

La vicenda – Rimangono poco chiare le motivazioni dell’arresto di Gabriele Del Grande, fermato il 9 aprile nella provincia di Hatay, la zona più vicina alla Siria. Secondo le autorità turche, Gabriele si trovava in un’area interdetta, una zona militare priva però di recinzioni che ne vietassero l’accesso in modo chiaro. Fermato, è stato portato in un centro di detenzione amministrativa della zona. Qui, venerdì 14, è stata negata la prima visita al console italiano. Fonti turche fanno sapere che, nel giro di 24 ore, il giornalista sarà rilasciato e potrà tornare in Italia. Non succede. Senza avvisare l’Italia, Del Grande è trasferito in un altro centro di detenzione, a Mugla, sulla costa egea meridionale del paese. Non gli viene notificata nessuna accusa ufficiale, non gli è consentito di nominare un avvocato ed è portato in isolamento. Solo ieri, mercoledì 19, riesce a fare una telefonata a casa. Alla compagna Alexandra D’Onofrio, Gabriele dice di entrare in sciopero della fame: «La ragione del fermo è legata al contenuto del mio lavoro. Non mi è stato detto che le autorità italiane volevano mettersi in contatto con me». Secondo fonti dell’intelligence, la situazione si sarebbe complicata perché Gabriele – in Turchia per realizzare Un partigiano mi disse, un documento «sulla guerra in Siria e la nascita dell’Isis raccontate attraverso l’epica della gente comune» si legge sul sito del progetto – sarebbe stato notato mentre parlava con alcuni presunti terroristi. Una tesi che avrebbe spinto le autorità locali a verificare le condizioni di sicurezza.

«Gabriele è stato fermato per il suo lavoro» – «Gabriele è in uno stato di detenzione per motivazioni che sembrano legate alle sue attività di scrittore e documentarista. Il giornalismo non è un reato ma le autorità turche sembrano non capirlo», commenta Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, che ha lanciato un appello per la scarcerazione del giornalista. «Abbiamo constatato come nella prima settimana ci sia stato un ritardo di attenzioni da parte delle autorità italiane, convinte, o lasciatesi convincere, che la situazione si sarebbe risolta rapidamente. Ma è stata una previsione sbagliata. Solo adesso la Farnesina si sta muovendo con decisione. All’inizio ci è stato detto che erano in corso le ultime procedure per perfezionare l’espulsione, che Gabriele stava bene e si trovava in una guest house. Ma quando ha potuto prendere la parola, Gabriele ha descritto un’altra situazione. Interrogatori continui rivolti a capire chi avesse incontrato in Turchia, quali informazioni avesse ricevuto. Un quadro diverso rispetto a quanto raccontato nella prima settimana dalla Farnesina e che avrebbe dovuto spingere a fare qualcosa di più dall’inizio».

Le mobilitazioni – L’ong chiede il rispetto dei diritti consolari del documentarista, quelli che spettano a un cittadino che si trova in stato di fermo in un paese straniero. «Deve potere avere immediato accesso a un avvocato. Vogliamo sapere quali sono le accuse mosse contro di lui, ma siamo convinti che non avrebbero alcuna rilevanza penale dal punto di vista del diritto internazionale». Luigi Manconi, presidente della Commissione italiana per i diritti umani, ha presentato in Senato un appello alle istituzioni perché si impegnino per la scarcerazione dello scrittore. Non è stata la sola presa di posizione. Sit-in e manifestazioni sono state organizzate in molte città italiane. A Pisa c’è stata la prima mobilitazione. Ma anche a Roma, Torino e Milano.