Erasmo D’Angelis, lei è stato sottosegretario di Stato al ministero delle Infrastrutture dal 2013 al 2014 e in seguito a capo di Italiasicura, la struttura di missione contro il dissesto idrogeologico istituita nel 2014. Ancora non si può fare una stima dei danni complessivi e dei soldi che servono per ricostruire. Ma, parlando delle case distrutte, cosa si può fare nel post-emergenza: se si ricostruiscono nelle stesse zone, non c’è rischio che si possa ripetere il disastro?
«Il disastro non lo eviti. Lo puoi mitigare. Il nostro problema è difenderci, lo possiamo fare. Abbiamo capacità tecniche e risorse. Lo dimostrano i 4 miliardi spesi in media all’anno per riparare i danni, che si potrebbero spendere per la prevenzione. Irrobustire le arginature, contenere le frane e approvare una legge in Parlamento sul consumo di suolo. Sicuramente andrebbe delocalizzata una parte dell’edilizia. Ma oggi serve un patto della politica: litigate su tutto ma non su questo. Il nostro Paese ha a disposizione il piano di Italiasicura: andrebbe ripreso e aggiornato, con una struttura tecnica e operativa permanente».

Secondo lei in che misura il disastro che in questi giorni ha colpito l’Emilia-Romagna è stato causato dall’eccessiva cementificazione del territorio?
«Ci sono stati due eventi estremi a ridosso, due valanghe di acqua in pochi giorni. Ci troviamo di fronte all’evento più grave dal grande alluvione di Firenze del 1966. È catastrofe vera e anche anomala, un alluvione spartiacque che non vedevamo da decenni e un segnale forte del cambiamento climatico in corso sia per estensione geografica del territorio colpito (43 comuni), sia per il numero di fiumi esondati (21, e altri corsi d’acqua minori) e le frane innescate (1000, 300 quelle più rischiose). Questo si aggiunge ad altri segnali. Nel 1900 si verificavano cinque o sei eventi estremi all’anno, noi oggi da inizio 2000 ne vediamo 100: la realtà è questa. L’urbanizzazione a tratti folle in Romagna ha fatto sparire le vecchie scoline e i sistemi di drenaggio. In generale l’Italia è stata urbanizzata molto male, è passata dal 2,8% di territorio costruito nel 1956 all’8,3% di oggi, secondo i dati Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, ndr). Hanno urbanizzato anche senza piani regolatori, c’è stata tanta edilizia condonata, a ridosso di fiumi e in aree a rischio. È stato permesso di tutto e oggi 8 milioni di italiani vivono in zone a rischio». 

A cosa dobbiamo guardare per il futuro?
Il Mose di Venezia è stato un investimento clamoroso e dimostra che siamo i primi al mondo in prevenzione, se solo la volessimo fare. Manca la capacità politica di investire su questo che vada oltre le durate dei governi. Nel 2015 sono partiti i più grandi cantieri per la sicurezza degli alluvioni, come i lavori sui fiumi di Genova. Sono opere costose, ma Genova è un modello, perché è molto più sicura oggi. Anche a Firenze sono stati fatti 120 milioni di investimenti per contenere le piene dell’Arno. Sempre nel 2015 altri 140 milioni di investimento sono stati stanziati per i lavori sul Seveso di Milano. La parte positiva, quindi, è che si può fare.