«Io non sono né un malinconico né un maniaco depresso – morire mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita – è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche». Con queste parole nel settembre 2006 Piergiorgio Welby – costretto al respiratore dal 1997 a causa di una grave forma di distrofia muscolare – chiedeva all’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che gli venisse riconosciuto il diritto a morire. A quindici anni dalla sua fine, l’eutanasia è ancora illegale in Italia, nessuna legge è stata approvata, mentre il caso di Mario – l’uomo di Ancona primo in Italia a ottenere il via libera al suicidio assistito – ha fatto tornare in Parlamento la discussione sul testo della legge che dovrebbe regolarizzare la sentenza 242/2019 della Corte costituzionale. La mancanza di un accordo all’interno della maggioranza non fa però ipotizzare tempi brevi per l’approvazione della legge: potrebbe arrivare prima il referendum sull’eutanasia promosso dall’associazione Luca Coscioni e appoggiato anche da alcuni partiti e gruppi parlamentari quali +Europa, Possibile, Radicali Italiani e Sinistra Italiana. Il prossimo 15 febbraio la Corte Costituzionale deciderà sulla sua ammissibilità.

I limiti – Oggi in Italia l’eutanasia – termine entro cui rientrano tutti quegli interventi medici che prevedono la somministrazione diretta da parte di un medico di un farmaco letale al paziente che ne faccia richiesta e che soddisfi determinati requisiti – costituisce reato in base all’articolo 579 (Omicidio del consenziente) e all’articolo 580 (Istigazione al suicidio) del codice penale. Le cose stanno diversamente per quanto riguarda il suicidio medicalmente assistito – che per definizione richiede che sia il paziente a iniettarsi la sostanza letale –, e la sospensione delle cure. Quest’ultima è riconosciuta come diritto inviolabile dall’articolo 32 della Costituzione, mentre il primo è ammesso, ma solo in presenza di determinate circostanze, quelle definite dalla sentenza 242/2019 della Corte Costituzionale, detta anche “sentenza Fabo-Cappato”.

La sentenza – Nel 2006 fu il medico Mario Riccio a staccare il respiratore a Welby mentre era sotto sedazione permettendogli di porre fine alle sue sofferenze. Decisione che costò a Riccio l’accusa di omicidio, per cui fu processato e poi assolto nel 2007. Dopo poco più di dieci anni, nel 2017, il caso di Fabio Antoniani, meglio conosciuto come Dj Fabo, riportò l’argomento al centro del dibattito pubblico. Per ottenere il suicidio assistito Fabo fu costretto a recarsi in Svizzera, accompagnato da Marco Cappato dell’associazione Luca Coscioni – che dai tempi di Welby è in prima linea nella lotta per il riconoscimento del diritto alla morte medicalmente assistita. La sua vicenda ha portato il 22 novembre 2019 alla pronuncia in Corte Costituzionale della sentenza numero 242. Questa riconosce il diritto al suicidio medicalmente assistito a patto che siano presenti quattro condizioni: la persona che ne fa richiesta deve essere pienamente capace di intendere e volere, deve avere una patologia irreversibile e portatrice di gravi sofferenze fisiche o psichiche, e deve sopravvivere grazie a trattamenti di sostegno vitale.

La discussione in Parlamento – Il testo della legge che si sta discutendo in Parlamento, chiamato “Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita”, ricalca in buona parte il contenuto della sentenza. Ma è stata la stessa associazione Coscioni a lamentare la presenza di punti problematici e a proporre alcuni emendamenti volti a superarli. Nello specifico la legge introdurrebbe una discriminazione tra malati, escludendo tutti quelle persone affette da patologie irreversibili e portatrici di gravi sofferenze ritenute intollerabili (come ad esempio un cancro non più curabile) che non sono collegati a macchinari o che non hanno ancora bisogno di trattamenti sanitari di sostegno vitale. Inoltre, la legge non prevede l’eutanasia attiva, ovvero quella che si realizza quando è il medico a somministrare il farmaco letale: ciò comporta l’esclusione dal diritto di tutti quei malati che pur essendo capaci di intendere e volere, hanno perso l’autonomia fisica.

La proposta di referendum – Proprio il giorno del quindicesimo anniversario dalla morte di Welby, l’associazione Coscioni ha comunicato che il 15 febbraio 2022 si terrà l’udienza in Corte Costituzionale sull’ammissibilità del referendum abrogativo da loro promosso e per cui lo scorso 9 dicembre sono state depositate le firme raccolte con una grande adesione da parte dei cittadini, con oltre 1,2 milioni di firme depositate. L’obiettivo è quello di eliminare la parte dell’articolo 579 del codice penale che punisce l’assistenza al suicidio così da rendere possibile l’eutanasia attiva e allargare la platea di pazienti che potranno ottenere il suicidio assistito.