Uno schianto alle porte di Milano. Un incidente in auto che gli porta via tutto: inizia così il calvario di Fabiano Antoniani, Dj Fabo, il 13 giugno 2014. Dopo gli inutili tentativi di recuperare una vita normale, la decisione più estrema: farla finita. Il 25 febbraio del 2017, con l’aiuto di Marco Cappato, varca il confine svizzero. In Italia il «suicidio assistito» non esiste: il codice penale italiano – il codice Rocco del 1930 – vieta sia il suicidio sia ogni atto di «aiuto al suicidio».
Il reato: aiuto al suicidio. La mattina del 27 febbraio, però, Fabo decide di morire: non sopporta più la sua vita dopo l’incidente, che lo ha reso cieco e tetraplegico. Si spegne nella clinica svizzera “Dignitas”. Con lui c’è la fidanzata, che lo ha accompagnato fino alla fine. E c’è Marco Cappato, già noto esponente dei Radicali Italiani e attivista per i diritti civili con l’Associazione Luca Coscioni. A più di dieci anni dal caso Welby, decide di aiutare Dj Fabo a morire e di rendere pubblica la sua storia.
L’autodenuncia. Di ritorno dalla Svizzera, Cappato, che per avere aiutato Fabo a morire è perseguibile ai sensi dell’articolo 580 del codice penale, si autodenuncia presso la procura di Milano. Obiettivo: sollevare un caso mediatico e riaprire il dibattito sul fine vita. Una proposta di legge per rendere l’eutanasia legale è stata depositata in parlamento, ma non è ancora stata discussa. Per la sua autodenuncia Cappato rischia dai 5 ai 12 anni di carcere: un eroe per alcuni, un esibizionista secondo altri, un servitore di Satana secondo i pro-life.
La richiesta di archiviazione. Il 13 luglio 2017 le pm Tiziana Siciliano e Sara Arduini chiedono l’archiviazione del caso, sollevando la questione di costituzionalità sulle norme che regolano il fine vita in Italia. Nelle motivazioni della richiesta di archiviazione le pm scrivono: «La giurisprudenza ha inteso affiancare al diritto alla vita tout court il diritto alla dignità della vita inteso come sinonimo dell’umana dignità». In altre parole: anche se la legge italiana non prevede espressamente il diritto a togliersi la vita, «le pratiche di suicidio assistito non costituiscono una violazione del diritto alla vita quando» siano connesse a una situazione «ritenuta intollerabile o indegna dal malato stesso».
Il rinvio a giudizio. Ma la richiesta di archiviazione viene respinta dal gip di Milano Luigi Gargiulo. Cappato non solo è imputabile ai sensi dell’articolo 580 del codice penale per «aiuto al suicidio» ma avrebbe «forzato il proposito di suicidio» di Dj Fabo. Gargiulo predispone l’imputazione coatta: Cappato è rinviato a giudizio. Verrà processato. La prima data per l’Udienza Preliminare è fissata per il 15 novembre davanti al gup Livio Cristofano. Ma il 5 settembre 2017 Cappato deposita l’istanza di giudizio immediato: «Ho chiesto il giudizio immediato, cioè di andare immediatamente a processo, perché voglio che in Italia finalmente si possa discutere di come aiutare i malati a essere liberi di decidere fino alla fine. Il processo sarà un’occasione per discuterne ed è bene che sia il prima possibile».
L’inizio del processo. L’8 novembre, di fronte alla Corte d’Assise del Tribunale di Milano, inizia il processo a Marco Cappato per «aiuto al suicidio». Un processo che potrebbe fare la storia, aprendo in via giurisprudenziale al diritto di scelta sul fine vita.