Al termine della requisitoria nel maxiprocesso ‘’Ambiente svenduto’’, il pm Mariano Buccoliero di Taranto ha chiesto 28 e 25 anni di reclusione per i fratelli Fabio e Nicola Riva, gli ex proprietari dell’ex Ilva, e 5 per l’ex governatore della Regione Puglia Nichi Vendola. Sono i nomi più conosciuti della lista dei 47 imputati (44 persone e 3 società) seguita al sequestro degli impianti dell’area a caldo del luglio 2012. Lo scorso 13 febbraio una sentenza del Tar ne ha ordinato lo spegnimento, confermando un’ordinanza del sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci. Nel frattempo, il neoministro allo Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti ha convocato i sindacati per venerdì 19 febbraio per una riunione sulla questione dell’exIlva.

Il pm Mariano Buccoliero davanti alla Corte d’Assise di Taranto che emette le proprie richieste al processo “Ambiente Svenduto” (Ansa – Renato Ingenito)
Le richieste del pm – I due fratelli Riva sono ritenuti i capi dell’associazione a delinquere che avrebbe permesso, attraverso dati falsi e appoggi politici, di proseguire negli anni la produzione inquinante riuscendo a evitare controlli, sanzioni e leggi. Oltre a quella di associazione finalizzata al disastro ambientale, le accuse rivolte agli imputati comprendono: omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro, avvelenamento di sostanze alimentari, corruzioni in atti giudiziari e omicidio colposo. Le pene più importanti richieste coinvolgono anche l’ex direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso e l’ex responsabile delle relazioni istituzionali dell’Ilva Girolamo Archinà, definito dalla pubblica accusa l’uomo degli «affari illeciti dell’azienda agli ordini della proprietà». Per entrambi sono stati chiesti 28 anni di carcere, in particolare il secondo è ritenuto dalla procura la «longa manus» dei Riva cui era affidato il compito di mantenere i rapporti con stampa e autorità locali. Inoltre, lo stesso Archinà, avrebbe fatto pressioni nei confronti dei dirigenti della Provincia per concedere alla società l’autorizzazione all’utilizzo delle discariche interne alla fabbrica, concessa poi da uno dei decreti di Governo ”Salva Ilva’’ nel 2013.
La politica – Per quanto riguarda la politica, la pena maggiore è stata chiesta per Nichi Vendola. Secondo il pm, l’ex presidente della Regione Puglia avrebbe fatto pressioni su Arpa Puglia (Agenzia per l’ambiente della Regione Puglia) perché rivedesse la relazione sulla cokeria Ilva. Inoltre, il pm ha chiesto la confisca per l’equivalente del profitto illecito di 2 miliardi alle tre società (ovvero Ilva, Riva Forni Elettrici e Riva Fire), e per l’acciaieria l’interdizione all’esercizio dell’attività per un anno, con la possibilità di sostituire la pena con un «commissariamento giudiziale per un analogo periodo di tempo».
Promesse mai mantenute – Lo stabilimento ex Ilva di Taranto oggi dà lavoro a oltre 13mila dipendenti, ma nove anni fa era arrivato anche a superare quota 20mila. Fu in quell’estate 2012, quando i Riva vennero arrestati e l’intero impianto posto sotto sequestro, che per la prima volta un giudice scrisse che in quel comune pugliese i cittadini si ammalavano più del normale a causa dei fumi provenienti dagli stabilimenti. Le acciaierie davano sì un’opportunità di lavoro a migliaia di operai, ma il prezzo da pagare era rinunciare alla propria salute. Per questo motivo nel corso degli anni e dei Governi si è riproposta costantemente la questione dello stabilimento: trovare una soluzione che tuteli sia il diritto al lavoro sia quello alla salute. Le varie gestioni si sono alternate tra Stato, vari manager e la multinazionale indiana ArcelorMittal dal 2018. Anno in cui ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico era Luigi Di Maio. Il movimento Cinque Stelle aveva fatto della questione Ilva uno dei punti di forza del proprio programma nei mesi di campagna elettorale: «Se vinciamo, chiuderemo il mostro», prometteva Alessandro Di Battista. Vinsero, ma l’Ilva non chiuse. Di Maio si ritrovò a trattare con ArcelorMittal, in particolare sulla questione ‘scudo penale’ che avrebbe garantito un’immunità provvisoria alla multinazionale. Questo, venuto a mancare, portò il colosso industriale a dichiarare nel 2019 la volontà di rescindere l’accordo e di chiudere definitivamente lo stabilimento pugliese. Pur di non procedere alla chiusura, il Governo commissariò l’azienda e da marzo 2020 ha ripreso il dialogo con la multinazionale indiana studiando un ingresso da parte del Ministero attraverso Invitalia nel capitale sociale. Tuttavia, la sentenza del Tar del 17 febbraio peggiora ulteriormente la questione. Lo spegnimento dell’impianto a caldo potrebbe causare gravi danni all’impianto stesso, e complicare ancora di più l’accordo tra Governo e ArcelorMittal.