Luciano Micconi, a sinistra nella foto di archivio insieme al direttore Ferrucio De Bortoli, alla cerimonia che si tiene ogni anno al Corrierte della Sera per ricordare Walter Tobagi (Archivio Corriere – 2014)

La voce si spezza e inizia il racconto. Era la sera del 27 maggio l’ultima volta che il segretario di redazione vide vivo Walter Tobagi. «Ebbi la notizia della trasferta di Walter a Venezia per un servizio. Aspettavo di vederlo per il resoconto sugli aspetti organizzativi. Alloggio, spostamenti, spese, così come facevo ogni volta che un giornalista andava a lavorare fuori città». ?Prima di diventare l’anima organizzativa del Corriere della Sera, Luciano Micconi era cresciuto tra le mura di via Solferino. Da giornalista praticante a caposervizio, da redattore capo a storico segretario di redazione. Era lì quando, otto anni prima, il venticinquenne Tobagi si era presentato per la prima volta al giornale. «Lo accolsi come usavo fare con tutti, ci fu subito grande intesa e amicizia. Da sempre al giornale ci trattavamo come fratelli. Ricordo che da lettore mi capitava a volte di esprimere qualche dubbio su frasi o punti che trovavo negli articoli scritti dai colleghi. E in tono del tutto amichevole ne parlavo con i diretti interessati. Ecco, con Walter non è mai successo. Aveva una scrittura cristallina, una serietà nel mettere insieme i pezzi del suo lavoro che ammiravo profondamente. Non andava mai oltre la verità di quello che vedeva. E in fondo, quel non andare oltre è sempre stata una delle sue caratteristiche più belle anche come uomo. Sempre misurato, sempre per bene». Dalla prima volta che lo incontrò, il ricordo del segretario torna inevitabilmente all’ultima.

«Quella sera Walter arrivò verso le sette, bussò alla porta del mio ufficio, mi salutò con la sua solita stretta di mano amichevole e si sedette su quel divano del Settecento posto davanti alla mia scrivania. Lo ricordo ancora, aveva l’abitudine di sedersi sul lato destro e anche quella sera fece allo stesso modo, aspettando da me i documenti che gli servivano». Si fecero le otto e quel «devo andare» detto da Tobagi guardando l’orologio, fu l’ultimo che Micconi ascoltò. «Lo aspettavano al Circolo della Stampa, c’era un dibattito e lui doveva intervenire come presidente dell’Associazione Lombarda dei Giornalisti» ricorda. Un dibattito sui temi della libertà di stampa e della responsabilità giornalistica di fronte all’offensiva delle bande terroristiche. Quello stesso dibattito al quale, si seppe poi, presero parte anche alcuni componenti della Brigata XXVIII marzo, la stessa che la mattina seguente lo uccise. «“Ci vediamo domattina intorno alle undici” furono le ultime parole che ascoltai dalla sua voce prima che la porta del mio ufficio si chiudesse dietro di lui», racconta Micconi.

Le undici della mattina dopo arrivarono, puntuali. La vita del giornale scorreva regolare anche quel 28 maggio. «Ero già lì dalle otto – continua l’ex segretario – Come al solito, avevo distribuito le circolari alle redazioni con le notizie arrivate, utili per disporre gli argomenti della riunione». Luciano ricorda bene la sala Albertini. «La riunione per impostare il giornale era cominciata. Attorno al grande tavolo il direttore Franco Di Bella, i redattori capo, i capi servizio, il vicedirettore Gaspare Barbiellini Amidei. Io ero al mio solito tavolo laterale, alle spalle del direttore». Poi i primi segnali: «Il giro cominciò con una notizia ancora poco chiara, si parlava di un morto della malavita, uno scontro a fuoco in Porta Genova. Ma erano ancora ignoti identità della vittima e movente. Pensavamo a un regolamento di conti, come ne avvenivano spesso in quegli anni, e aspettavamo altre agenzie per capirne di più. Non ci fu il tempo di dire altro che una delle due porte della sala Albertini si spalancò di colpo. Subito dopo, il grido che non dimenticherò mai: “Hanno ammazzato Tobagi”». ?A gridare era stato il capo cronista Fabio Mantica, «un uomo minuto ma dalla forte tempra giornalistica», lo ricorda Micconi. Fu lui ad alzare il telefono per ricevere una delle notizie più tragiche nella storia del giornale.

«“Hanno ammazzato Tobagi”, quell’urlo risuona ancora forte nella mia testa», riprende l’ex segretario ripetendolo più volte, «Hanno ammazzato Tobagi». Tutti quelli seduti al tavolo scattarono in piedi e corsero verso la porta. «Di Bella, Ferruccio De Bortoli della cronaca, Barbiellini furono tra quelli che si diressero verso l’autorimessa per raggiungere il prima possibile via Salaino, dove avvenne l’attentato. Impossibile ricordare le parole che ci dicemmo, il dolore ci colpì in pieno petto e annebbiò la mente», racconta commosso Micconi.
A quell’ora non c’erano molti giornalisti in redazione, la vita del giornale sarebbe cominciata a pieno ritmo nel pomeriggio. In pochissimo tempo quindi il segretario rimase da solo, a gestire le decine di messaggi e telefonate che «nel giro di pochi minuti cominciarono ad arrivare ininterrottamente». Custode anche nei momenti più tragici di quella che ancora oggi chiama la sua casa, Luciano Micconi non si spostò dalla sede di via Solferino, cercando disperatamente di sapere qualcosa di più dalle decine di agenzie che si susseguivano. «La polizia confermò l’identità del corpo di Walter», racconta. «Cinque colpi di pistola. In tasca alcuni fogli. La ricordo ancora quella sua buona abitudine. Portava sempre con sé un taccuino dove segnare le notizie e i particolari interessanti che intravedeva. Fu un momento terribile». ?Il giornalista quella mattina stava andando al giornale come d’accordo con Micconi. «Continuavo a pensare che stava venendo da me», ripete.

Nelle ore successive, il primo piano di via Solferino divenne un via vai di visite e omaggi. «Avevamo istituito un registro all’ingresso in cui tutti quelli che arrivavano lasciavano una firma, un pensiero per Walter. Non sono più riuscito a trovarlo. Fu incredibile la fiumana di gente che accorse. Dalle autorità, ai colleghi, al popolo in lacrime. Rimasi lì fisso quel giorno fino all’una di notte, fino a quando il giornale venne chiuso e fu mandato in tipografia».
Una delle scelte più dolorose che il segretario racconta fu quella di dover andare avanti a lavorare, e in fretta, per poter garantire, anche in un momento così tragico, l’informazione. «Dopo qualche ora dalla notizia dell’uccisione, i capi tornarono al giornale, lì dove Walter aveva passato ore e ore a scrivere e a studiare. E come lui forse avrebbe voluto, si misero a lavoro. Il giornale doveva andare avanti, informare le persone di quello che era accaduto», spiega.

Il titolo della prima pagina del Corriere della Sera del 29 maggio riprendeva quell’urlo indimenticato del vice capocronista Mantica: «Hanno ammazzato Tobagi». Di Bella e Barbiellini scrissero “In morte di un cronista buono”, Fabio Felicetti raccontò di un corpo sull’asfalto bagnato di pioggia. Accanto, la foto di Ulderico Tobagi chino sul lenzuolo bianco del figlio. Paolo Bugialli poi descrisse le lacrime disperate del presidente Pertini. Fino all’amaro titolo sul fondo: «Stiamo a vedere a chi toccherà la prossima volta», una delle frasi pronunciate da Tobagi al Circolo della Stampa la sera prima del suo assassinio. «Rimasi lì finché tutto fu pronto per la tipografia – ricorda il segretario – era quasi l’una di notte».

Le più grandi tragedie non vanno d’accordo con il tempo che passa. Tutto si precisa e acquista i suoi contorni reali di ora in ora e fu così anche per i colleghi di Walter. «Andai al giornale alle otto in punto anche la mattina dopo il dramma. Fu ancora più dura. Ci si rendeva conto sempre di più di quanto successo. Sentivo i resoconti, leggevo i giornali, ascoltavo i commenti. Ci eravamo tutti incamminati su una strada senza ritorno. Un ricordo lacerante che non ci avrebbe mai più abbandonati. In quelle ore del giorno dopo era impossibile estraniarsi, dimenticare. Ma non si dimentica neanche adesso che di anni ne son passati 40». Il segretario ricorda tutto, momento per momento, fino all’ultimo saluto: «Quando il giorno dei funerali lo accompagnammo dalla Chiesa di Santa Maria del Rosario al cimitero per la sepoltura, una tappa fu d’obbligo. Le esequie si fermarono davanti alla sede del giornale, in via Solferino, fu il suo ultimo saluto al Corriere e il nostro a lui. Indimenticabile». La voce affaticata di Luciano Micconi non ferma la voglia ancora giovane di raccontare e ribadire la grandezza di un giornalista libero: «Il senso della memoria? Difendere, ancora e sempre, la giustizia di un giornalismo onesto».