Arpe pizzicate e bottiglie percosse. Nell’aria risuona la tarantella calabrese. Non siamo al festival musicale Paleariza di Reggio Calabria ma nella Sala della Balla del Castello Sforzesco di Milano. Qui, per celebrare i 15 anni dell’Istituto Confucio dell’università Statale di Milano, è andato in scena il concerto Dialoghi Musicali tra Cina e Italia. Un’unione, in note, delle due culture. «L’obiettivo di Confucio è insegnare a parlare con i cinesi e non solo dei cinesi», ci spiega la professoressa Alessandra Lavagnino, direttrice di parte italiana dell’istituto fondato nel 2009. Confucio conta 550 centri sparsi in 162 stati (di cui 12 in Italia) atti a promuovere la lingua e la cultura cinese attraverso la cooperazione con prestigiose università. Un impegno, quello del centro, che si sposa con gli obiettivi del Forum Culturale Italia-Cina, la cui terza edizione si è tenuta lo scorso 8 novembre a Pechino. Al congresso hanno partecipato rettori di università italiane e cinesi per proseguire la partnership, sostenuta anche dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

Iniziava vent’anni la collaborazione tra Italia e Cina sul fronte dell’istruzione di alto livello.
«Il fatto che ci fosse una delegazione di tanti rettori che ha accompagnato Mattarella a Pechino indica che i progetti di formazione italiani e cinesi non si interrompono. Le università cinesi continuano la collaborazione anche sul piano humanities oltre che tecnologico e scientifico, l’università statale di Milano in questo è stata sempre all’avanguardia».

Il ministro dell’Istruzione cinese Huai Jinpeng ha infatti dichiarato che l’obiettivo è aumentare gli scambi tra i due Paesi.
«Per la Statale può significare che, se c’è l’intenzione di tutti gli scambi diretti con le università, i canali sono più che aperti. Tante università italiane accolgono dottorandi cinesi privilegiandone il soggiorno, anche senza borsa di studio perché essa viene fornita dalla Cina. Nella nostra università non è facile farlo e questa potrebbe essere una possibilità da potenziare».

La professoressa Alessandra Lavagnino (fonte: sito Istituto Confucio)

L’ultimo rapporto del Merics – il più grande centro europeo focalizzato sulla Cina – parla degli istituti Confucio come di una falla nelle linee guida su come gestire le partnership con le università cinesi. Cosa si sente di dire in merito?
«È una polemica che non nasce in Europa, ma in America. Confucio, alla Statale di Milano, gestisce sotto la nostra direzione i corsi di cinese non istituzionali, per la popolazione. Corsi serali a pagamento che sono ben diversi dai corsi universitari. In America hanno emesso una serie di cattedre e borse Confucio per poi rendersi conto che gli era tutto sfuggito di mano. C’è stata molta ingenuità nell’organizzazione, noi non abbiamo mai avuto questo tipo di problemi. Il nostro istituto è stato oggetto di indagini molto accurate dal punto di vista della gestione economica e politica, da quindici anni lavoriamo in piena trasparenza e come noi anche gli altri istituti italiani».

L’istituto Confucio compie 15 anni e lei c’è dal primo giorno.
«Siamo partiti con i corsi di lingua e di cultura, poi i grandi eventi culturali e di tradizione, cercando di portare un po’ di Cina in Statale e in questa città che si stava aprendo all’oriente. In questi quindici anni abbiamo cercato di mettere insieme una serie di strumenti e di proporre materiali utili per smontare e rimontare questa Cina di oggi nei suoi tanti aspetti. Agli studenti della Statale forniamo diverse borse di studio speciali per andare in Cina, abbiamo una serie di progetti per conoscere la Cina attraverso il cinema, l’arte e la musica».

Quale aspetto della cultura cinese può incuriosire di più i giovani?
«Caldeggio sempre lo studio della scrittura. Imparare a capire che cos’è la scrittura cinese, a smontare e rimontare parte di un meccanismo di pensiero che arriva a mettere per iscritto le proprie parole e la propria storia in una maniera diversa dalla nostra. I cinesi hanno dovuto imparare nel XIX secolo a scrivere e a leggere le nostre lingue e le nostre culture a causa della conquista. Perché non impariamo noi a vedere e capire come scrivono loro? Inoltre, la loro scrittura è molto affascinante e parte di quello che Carl Gustav Jung definiva “inconscio collettivo”, quindi qualcosa che abbiamo dentro».