Jeff Bezos, proprietario del Washington Post

«Ogni giorno dobbiamo stupire i lettori per farli tornare da noi. E ci stiamo riuscendo. Certo, Trump aiuta». Andrew Sorkin, giornalista finanziario del New York Times, è ottimista sul futuro del giornalismo. «È l’effetto della FoMO (fear of missing out, paura di essere tagliati fuori). Dovremmo essere una sorta di Game of Thrones. Non tutti i giorni, ma quasi». Il più diretto concorrente del suo giornale, il Washington Post, sta riuscendo meglio di chiunque altro nell’intento. E lui non lo nasconde: «Io stesso mi ci sono abbonato perché attirato dai link ai loro articoli esclusivi sul Presidente. Erano notizie che non potevo perdere». Ad ascoltarlo c’è proprio il padrone del Post, oltre che di Amazon (e secondo uomo più ricco del mondo), Jeff Bezos. Anche lui invitato, insieme ad altri proprietari e direttori di grandi giornali, a “The future of journalism”, conferenza ospitata da La Stampa per festeggiare i suoi 150 anni e le nozze col gruppo L’Espresso.

Carta – Poche ore dopo la fine del convegno, in quello stesso edificio le rotative entreranno in funzione per stampare il quotidiano del giorno dopo. Ma quanto resisterà la carta? Bezos ammette: «Io, il mio giornale lo leggo online. In realtà me lo faccio spedire a Seattle, dove vivo, perché mi piace avere in mano il prodotto cartaceo, ma mi arriva due giorni dopo. Nel 2025 continueremo a stampare i giornali. Certe cose scompaiono più lentamente di quanto possiamo pensare. Ma prima o poi accadrà: i giornali diventeranno un prodotto di lusso, come i cavalli, che continuano ad avere un mercato pur non essendo più indispensabili come mezzo di trasporto». In altri Paesi questo momento sembra essere più lontano, come testimonia l’esperienza di O Globo, diretto da Ascânio Saleme: «In Brasile il giornale di carta è ancora un prodotto di successo. Le persone amano la gerarchia delle notizie del giornale stampato». Ciò non è sufficiente secondo Bobby Ghosh, direttore dell’Hinduistan Times, il quotidiano in lingua inglese più letto a Nuova Delhi: «I giornali hanno le stesse foto, gli stessi colori, lo stesso design di quando ero bambino e il giornale veniva lasciato dietro la porta di casa. Oggi, quando mi sveglio posso informarmi in mezz’ora sul telefono e, uscito dal letto, rischio di prendere il giornale senza trovarci niente di nuovo. La nostra sfida è dare un motivo per leggerci, offrire qualcosa di diverso da quello che si trova su internet».

Giornalisti digitali – L’altra faccia della medaglia è la tecnologia. Lionel Barber, direttore del Financial Times è convinto che «la relazione tra giornali e tecnici deve essere sullo stesso piano». Ghosh crede in figure professionali versatili: «Nella nostra redazione ci sono 15 programmatori, molti degli altri sanno girare e montare video. In futuro non sarà più possibile fare il giornalista senza frequentare una scuola che insegni queste nuove competenze». Dall’altro lato, potrà entrare in un giornale anche chi segue percorsi insoliti: «Noi assumiamo registi di documentari, graphic designer, avvocati», dice Sorkin. Il nostro è un business basato sulle persone, sui talenti. La sfida più importante è scovare il talento migliore». Il Washington Post di Bezos guarda oltre: «I giornali si devono trasformare in società tecnologiche. Noi lo siamo già diventati. Abbiamo centinaia di ingegneri, vendiamo soluzioni tecnologiche ad altre realtà editoriali, teniamo sempre d’occhio i dati sul riscontro che hanno gli articoli online. Ma non siamo schiavi dei dati: ci sono sempre delle scelte di redazione che si basano sul senso critico».

Soldi – Appurato che il futuro è su internet, resta da capire come riuscire a monetizzare dalla Rete. Mark Thompson, amministratore delegato del New York Times, punta tutto sugli abbonamenti: «Credo che 10 milioni di abbonati in tutto il mondo sia un obiettivo ragionevole. Vogliamo raggiungere un pubblico composto da persone laureate con buona conoscenza dell’inglese». Sul fronte della pubblicità, il suo giornale ha stretto una ricca partnership con Samsung per realizzare video a 360 gradi, simile a quella stipulata dal Corriere della Sera con l’azienda sudcoreana. Un’altra soluzione è il native advertising, una forma di pubblicità che assume l’aspetto dei contenuti del sito sul quale è ospitata. Ma per Louis Dreyfus, amministratore delegato del francese Le Monde «è importante chiarire la natura di questi articoli, per non tradire la fiducia del pubblico».

Social network – Altro tema fondamentale è il rapporto dell’editoria con Facebook e Google, veri convitati di pietra della conferenza. Secondo Ghosh, «sono un male necessario». Tsuneo Kita, presidente di Nikkei, gruppo editoriale giapponese che ha comprato il Financial Times, non è convinto che tra 10 anni i due giganti di internet avranno lo stesso potere di oggi. Julian Reichelt, direttore della tedesca Bild Digital, mischia critica e autocritica: «La mia impressione è che Facebook e Google ci stanno aiutando con le fake news non perché hanno a cuore il problema, ma per distogliere l’attenzione da altri temi come abbonamenti e pubblicità. Va anche detto che Facebook è riuscita a capire prima di noi che le persone avrebbero apprezzato degli articoli che si caricano velocemente e ha creato così gli Instant Articles. In futuro dobbiamo presentare prodotti che interessano ai nostri lettori prima che lo facciano i giganti della Silicon Valley».