5480421664_b545d6083c_b

 

Tutto ebbe inizio con un gioco a premi. Il 6 dicembre 1961 il «Messaggero» riportò in prima pagina la notizia della confessione di un omicidio, accompagnata dalla foto del colpevole. Nel contesto di un quiz per i lettori del quotidiano romano, l’episodio fu di nuovo citato all’interno dell’edizione del 14 gennaio 1990. Nel frattempo, scontata la pena, il reo confesso si era rifatto una vita: aveva trovato lavoro e messo su famiglia. Si sentì perciò diffamato dalla riproposizione della notizia a distanza di trent’anni dal fatto e si rivolse al Tribunale di Roma. I giudici capitolini accolsero la domanda: in mancanza di un interesse pubblico alla rievocazione di fatti e protagonisti del passato deve riconoscersi «il diritto all’oblio».

Il diritto all’oblio. Al tempo della sentenza del Tribunale di Roma, essere dimenticati era semplice. Dopo pochi giorni la carta stampata diventava materia da topi di emeroteca e la durata di una notizia era pari a quella dell’interesse pubblico a conoscerla. Oggi, digitando un nome e un cognome su un motore di ricerca, è possibile rintracciare le notizie pubblicate in tempi vicini e lontani sul conto di ciascuno di noi. Il rischio è che la reputazione di un individuo sia per sempre rovinata dai link che un algoritmo associa alle sue generalità. Perciò, i giudici europei e nazionali hanno imposto a Google di permettere a chi ne faccia richiesta di essere dimenticato. Si chiama deindicizzazione e consiste nell’eliminazione dei link non più rilevanti dai risultati di ricerca associati al nome di una persona. Cancellati i link, il contenuto resta on-line, ma diventa molto più difficile trovarlo: è come togliere dal catalogo di una biblioteca un libro che comunque rimane sugli scaffali. Affinché il procedimento non si risolva in una violazione del diritto di cronaca – o peggio in una censura – il diritto all’oblio è concesso a due condizioni: il trascorrere di un adeguato periodo di tempo e l’assenza di un interesse pubblico alla memoria.

I dati di Google. Dal maggio 2014 Google ha messo a disposizione degli utenti un modulo per la deindicizzazione. Da allora ha ricevuto 635 mila richieste concernenti poco meno di due milioni di link. Più della metà di esse sono state respinte; solo il 43,2% delle domande di oblio sono state accolte. Così, il gigante di Mountain View non ha giudicato opportuno deindicizzare la notizia di un prete francese condannato ed allontanato dal mondo ecclesiastico per possesso di materiale pedo-pornografico. Viceversa, un attivista politico lettone ha ottenuto la rimozione dei link agli articoli che riportavano la notizia del suo ferimento durante una manifestazione di molti anni prima. Ha avuto successo anche un insegnante tedesco che chiedeva a Google di dimenticare una condanna riportata decenni addietro per un reato minore.

I dati italiani. Dall’Italia sono giunte a Google più di 39 mila richieste di oblio, relative a 126 mila link. Circa un terzo di esse sono state accolte. A farne le spese è stata, ad esempio, la pagina di Wikipedia relativa alla Banda della Comasina e quella relativa al più noto dei suoi membri, Renato Vallanzasca. Una delle persone citate ha chiesto e ottenuto che la digitazione del suo nome su Google non sia associata alla storica banda della mala milanese. Viceversa, nonostante la volontà dell’interessato, sono ancora indicizzati i link agli articoli che narrano la vicenda processuale di un terrorista degli anni ’70, uscito di prigione nel 2009. Big G ha considerato ancora attuale l’interesse pubblico a conoscere la sua storia. Stessa sorte anche per il professionista che chiedeva di deindicizzare le notizie della sua condanna per reati commessi in ambito professionale. L’algoritmo di Google non associa invece più il nome di una donna agli articoli relativi all’omicidio del marito avvenuto molti anni fa.

Fine pena mai. Il diritto all’oblio viene sempre più spesso invocato dinanzi ai giudici italiani. A volte, a chiederlo sono autori di reati che, saldato il debito con la giustizia, vorrebbero potersi reinserire nella società. Secondo alcuni la memoria di internet è un ostacolo in questo percorso e rischia di compromettere la funzione rieducativa della pena. Tuttavia, altri pensano che dietro la richiesta di essere dimenticati si nasconda l’opportunismo di chi vorrebbe veder cancellate al più presto le sue colpe. Caso per caso si dovrà stabilire se a prevalere sia l’interesse pubblico all’informazione o quello individuale alla reputazione.