Mada Kabobo, 31 anni ghanese. Per lo Stato italiano non esiste. Meglio: non esisteva fino a quando non ha deciso di imbracciare un piccone, uccidere tre persone e ferirne altre due nella mattina di sabato 11 maggio in zona Niguarda, Milano. Non è un clandestino, non è un rifugiato politico: è in un limbo giuridico. E come lui migliaia di altri immigrati.

Kabobo arriva presumibilmente in Puglia nel 2011 e presenta la richiesta di asilo politico. Ottiene nel 2012 il permesso temporaneo di soggiorno, previsto dalla legge proprio per i casi come il suo: cioè per chi è in attesa che sia definito il suo status di immigrato irregolare o rifugiato. La Commissione Territoriale però respinge la sua domanda e da quel momento scade anche il suo permesso di soggiorno. Kabobo fa ricorso in tribunale contro la decisione e per questo non può essere espulso. Non è in regola, non è clandestino e non è rifugiato. È inespellibile. Non può essere allontanato dall’Italia prima della fine giuridica della sua vicenda.

A fine luglio 2011, arriva nel centro di accoglienza richiedenti asilo a Bari, dove scoppia una rivolta il primo di agosto tra i 200 ospiti in attesa. Resistenza a pubblico ufficiale, danneggiamento. Queste le accuse che portano Kabobo in carcere come misura cautelare. Il 17 febbraio 2012 esce per decorrenza dei termini di custodia.

Ora è ufficialmente un senza tetto, senza documenti. Può solamente aspettare la sentenza del tribunale che dovrà decidere se accogliere o no il suo ricorso. E le tempistiche della giurisprudenza italiana non aiutano certo. Il sistema è lento e burocraticamente cavilloso, nonostante i vari tentativi di snellire le procedure (tra cui l’istituzione di sette di Commissioni Territoriali, al posto dell’unica nazionale centralizzatrice) per far fronte alle oltre 30mila domande di asilo all’anno.

Ma è proprio una legge organica che manca in Italia, una normativa chiara che garantisca protezione a chiunque la chieda. Oggi come oggi un immigrato in attesa di asilo politico non può lavorare se non dopo sei mesi dalla formulazione della richiesta. E non sempre gli viene garantito un sussidio economico. Dalla fame al “welfare” illegale il passo è breve.

L’Italia è l’unico paese dell’Unione Europea a non avere un sistema strutturato e funzionale in questo senso. Manca un programma di assistenza e integrazione che possa alleggerire le difficoltà operative delle amministrazioni locali, della forza di polizia, dei volontari, sui quali ricade il peso di questa responsabilità civile.

Maria Elena Zanini