Ancora una volta, la natura ha messo all’umanità di fronte ai suoi errori. Il villaggio di Raini, nel comune di Chamoli, 500 km a nord di Dheli, è stato travolto domenica mattina da un’onda anomala. A causa dell’aumento delle temperature, tonnellate di acqua solida si sono staccate dal ghiacciaio del Nanda Devi, seconda vetta più alta dell’India. Piombando con furia nel fiume a valle, lungo il quale sorgono molti paesini, la valanga di detriti ha innalzato il livello di un metro. Il volume dell’acqua in movimento ha sbriciolato la diga della centrale elettrica di Rishinganga. Tutto è avvenuto nel giro di pochi minuti e, nonostante l’allerta sia stata subito lanciata, non c’è stato tempo per avvertire la popolazione. L’alluvione ha inghiottito due centrali idroelettriche. Il bilancio delle vittime è ancora incerto. Secondo fonti locali, i dispersi sarebbero almeno 150 tra cui alcuni operai rimasti sepolti in un tunnel. Ma è molto probabile che nessuno sia sopravvissuto. Nel momento in cui scriviamo (le ore 12 dell’8 febbraio in Italia, sono stati recuperati 18 corpi).
Le prime dichiarazioni – «La nazione prega per la salvezza di tutte le persone coinvolte nel disastro», ha twittato il primo ministro Narendra Modi. La regione al confine con la Cina è abituata a disastri simili. Già nel 2013, nell’Uttarakhand, lo stato federato a nord del subcontinente, migliaia di persone persero la vita: molti villaggi vennero travolti dalla violenza delle frane, causate da piogge incessanti. Sanjay Singh Rana, un abitante di Raini, è sopravvissuto al disastro di ieri, ma tuttora non riesce a capire come sia stato possibile: «È stato tutto troppo veloce, impossibile allertare la popolazione. Ho avuto la sensazione che non mi sarei salvato neanche io». A dispetto del suo nome, il Nanda Devi ha tradito ancora una volta le aspettative degli indiani: non è stata una “Divinità che regala beatitudine”, e ha colpito con furia l’Uttarakhand, anche detta “Terra degli Dei”.
Un deja-vu italiano – La dinamica della tragedia che ha colpito il piccolo insediamento alle pendici del montagna indiana ricorda un triste episodio italiano. Il 9 ottobre del 1963 circa 260 milioni di metri cubi di roccia precipitarono alla velocità di 110 Km/h nel bacino idroelettrico del torrente Vajont, al confine tra il Friuli e il Veneto. Le acque sigillate dalla diga tracimarono, superando di 250 metri il culmine del muro. L’onda si riversò nella valle del Piave, in cui sorgevano decine di paesi. Travolse ogni cosa. Vi furono 2018 vittime di cui 1450 a Longarone, 109 a Codissago e Castellavazzo, 158 a Erto e Casso e 200 originarie di altri comuni. Le analogie con il caso indiano sono evidenti, tanto più se si pone attenzione sul comportamento dell’uomo e sulle sue manchevolezze. Nell’Italia degli annoi 60 fu l’aver costruito un gigantesco lago artificiale sotto una montagna già considerata instabile. Nell’India del terzo millennio non si è tenuto abbastanza conto del cambiamento climatico.
Riscaldamento globale – Nulla accade per caso. I ghiacciai himalayani stanno scomparendo sempre più velocemente. Uno studio del 2019, pubblicato su Scienze Advances, ha monitorato per quarant’anni le riserve d’acqua congelate sulla catena montuosa più imponente del mondo, dimostrando che l’innalzamento delle temperature ha eroso 45 cm all’anno dal 2000. Il caldo ha fagocitato otto miliardi di tonnellate d’acqua l’anno. Una quantità paragonabile a 3,2 milioni di piscine olimpioniche, che hanno abbandonato definitivamente le vette, fondamentali per prevenire la siccità. Anche nel caso in cui si concretizzasse una sana ed ecologica inversione di tendenza, il Centro internazionale per lo sviluppo integrato della montagna ipotizza che entro la fine del secolo un terzo del ghiaccio presente sull’Himalaya possa sciogliersi definitivamente. Ciò significa che dovremmo attendere altre tragedie. Secondo Renato Colucci, glaciologo del Cnr Istituto di Scienze Polari, «tutti i ghiacciai dell’Himalaya, delle Ande cilene e peruviane, e del Nord America sono a rischio». In tema di prevenzione, l’esperto non lascia spazio a dubbi: «Il clima è cambiato così rapidamente che i ghiacciai non hanno avuto tempo di adattare le loro dimensioni al nuovo clima. Quello che possiamo fare sono azioni di adattamento e mitigazione, studiare le situazioni di rischio, ma anche prepararci ad abbandonare certe zone dove potrebbero impattare».