
I farmaci sequestrati durante l’operazione che ha portato all’arresto dell’infermiera sono stati mostrati durante la conferenza stampa dei carabinieri di Livorno
Nata a Savona, 55 anni, abita in Toscana da trenta. Depressa, è stata in cura da uno specialista. È quello che si sa, per il momento, sull’infermiera accusata il 31 marzo dell’omicidio volontario, con l’aggravante della crudeltà, di 13 pazienti – uomini e donne tra i 61 e gli 88 anni – ricoverati nell’ospedale di Piombino.
Il gip del Tribunale di Livorno Antonio Pirato ha disposto un’ordinanza di custodia cautelare per la donna, che è stata subito trasferita al carcere di Pisa. Gli omicidi si sarebbero svolti in maniera continuativa dal 19 gennaio 2014 al 29 settembre 2015. Le vittime erano ricoverate presso l’Unità operativa di Anestesia e Rianimazione per patologie anche non gravi e recuperabili, come la rottura del femore. Nessuna era in fase terminale. A ucciderle un farmaco estraneo alle terapie prescritte, l’anticoagulante “Eparina”, che somministrato in quantità 10 volte superiore alla norma avrebbe causato rapide e irreversibili emorragie.
“Angelo della morte”. Così la criminologia ha etichettato chi uccide in ospedale. Sonya Caleffi e Daniela Poggiali sono solo due dei tanti nomi noti alle cronache italiane per aver assassinato i propri pazienti, iniettando sostanze letali, con il camice da infermiera. «La fenomenologia dei casi è la stessa, ma ciascun omicida appartiene a una tipologia diversa – dice a La Sestina Alessandro Meluzzi, criminologo e psicoterapeuta – Bisogna scandagliare il profilo, la personalità, per capire cosa può spingere una persona a compiere un atto simile». Secondo Meluzzi, esistono sostanzialmente tre orientamenti principali: chi con un atteggiamento pietoso infligge un’eutanasia diffusa e non richiesta «perché pensa di attenuare le sofferenze delle persone molto malate». Poi c’è chi, con un modo di fare mistico e megalomane, si sente signore della vita e della morte e «uccide per sentirsi come Dio». E infine le persone «francamente sadiche» che uccidono «come ucciderebbe un sociopatico serial killer senza alcuna pretesa misticheggiante» per infliggere dolore a qualcuno che non si può difendere.
È ancora troppo presto per valutare a quale categoria possa appartenere l'”angelo della morte” di Piombino. Il problema, sottolinea il criminologo, è in ogni caso legato all’illusione di essere padroni della vita altrui. Ma prevenire è possibile: «Bisognerebbe sempre vigilare sulle persone che si prendono cura degli altri, monitorare, magari con l’aiuto di telecamere – aggiunge Meluzzi – Ad oggi è vietato dalla normativa sul lavoro, ma sapendo di essere sempre osservati alcuni non farebbero certe cose. Poi bisognerebbe selezionare il personale in base alla vocazione personale e formarlo, perché quello di infermiere non è un impiego qualsiasi».
Chiara Piotto