libia1“Siamo a Sud di Roma”. Firmato: Isis. La nuvola nera del Califfato è arrivata in Libia e per la prima volta minaccia in modo diretto l’Italia. L’immagine dei pochi italiani rimasti nel Paese e costretti a una complicata fuga in catamarano via Malta fotografa la geografia del terrore in cui è precipitato negli ultimi giorni il bacino del Mediterraneo. La paura dei tagliagole del Daesh, acronimo arabo dell’Isis, non è mai stata così vicina. Il videomessaggio alla “Nazione della Croce”, lanciato sul web il 15 febbraio dai fedelissimi di Al Baghdadi, mette il nostro Paese nel mirino.

L’Italia è entrata ufficialmente nella lista dei nemici dello Stato Islamico, dopo che il titolare degli Esteri Paolo Gentiloni – ribattezzato dai jihadisti “ministro dell’Italia crociata” – aveva esposto il nostro Paese a un ruolo attivo in una coalizione internazionale anti-Isis sotto l’egida dell’Onu. A confermare la posizione dell’Italia anche il ministro della Difesa Roberta Pinotti, che ha prospettato un impegno “numericamente significativo” per il nostro Paese, simile a quello compiuto in Afghanistan. Alcuni ministri si sono spinti addirittura a quantificare il numero di soldati da inviare (si parla di 5 mila militari), ma Renzi colloca il governo su una linea più cauta e diplomatica. “Prudenza e attenzione: non si passi dall’indifferenza all’isteria o a reazioni irragionevoli”, ha detto il premier al Tg5.

Quello che a inizio Novecento veniva definito uno “scatolone di sabbia” oggi è un teatro di una guerra civile tra tante tribù. È un Paese grande sei volte l’Italia e diviso tra due governi, due parlamenti e due capitali. La fretta, come già nel 2011, rischia di essere una cattiva consigliera. A dirlo è il generale Fabio Mini, comandante della missione Nato in Kosovo: “Andare in Libia a fare la guerra è fin troppo facile. Una volta che vi fossimo infilati in quel pantano, però, difficile sarebbe uscirne. Guardate che cosa accade dopo 14 anni di Afghanistan”. Più danni che benefici, secondo un’opinione diffusa. Affondare gli anfibi sul terreno libico porta dritti verso una guerra a tutto campo: costi umani, politici ed economici che nel 2011 i Paesi schierati contro Gheddafi non vollero accettare.

L’ex primo ministro iracheno Nouri al Maliki ha definito la portata dello scontro contro il Califfato quella di una “terza guerra mondiale”, viste le aspirazioni universali delle bandiere nere di Al Baghdadi. I toni sono a tratti apocalittici anche in Italia e non mancano i sostenitori di un intervento necessario e inevitabile. “Se l’Isis minaccia Roma fa sul serio”, dice Antonio Martino, docente di Economia ed ex ministro degli Esteri nel primo governo Berlusconi. “Una lezione della storia è che i fanatici quando parlano esprimono ciò che davvero hanno intenzione di fare. Hitler come Al Baghdadi”.

L’Italia è il Paese europeo più vicino alla Libia e rappresenta il primo cliente e primo fornitore di Tripoli. Proprio dallo Stato libico il nostro Paese dipende per il 30 per cento dei rifornimenti di petrolio e gas, attraverso i pozzi dell’Eni. Una situazione difficile da conciliare con l’allerta terrorismo. E a confermare che l’allarme è da prendere sul serio c’è anche Alessandro Marrone, responsabile di ricerca Sicurezza e Difesa dell’Istituto Affari Internazionali (LAI): “i miliziani dello Stato islamico in Libia potrebbero lanciare missili verso l’Italia, per questo è necessario rafforzare i dispositivi di difesa nel sud del Paese. Che i missili siano in grado di raggiungere la Sicilia e di eludere la difesa antimissile è tutto da vedere. La Libia oggi è un porto franco del terrorismo, non c’è più controllo e passano di lì armi, droga e migranti”.

Elisabetta Invernizzi