«Io non voglio più occuparmi di terrorismo. Non voglio più rischiare la pelle per quelli lì». È notte fonda in via Solari, a Milano. Seduti dentro un’Opel Corsa ci sono Walter Tobagi e Massimo Fini. Parlano da ore. Il giornalista de Corriere della Sera da tempo si occupa di Brigate Rosse. Vorrebbe smettere: è pericoloso. Tanto, troppo. Lo dice al suo collega e amico, compagno di lotte sindacali e cronache giovanili. Massimo Fini lo ascolta, in silenzio, e si ricorderà di quella sera per il resto della vita. È il 27 maggio 1980. La mattina successiva, Walter Tobagi viene ucciso a colpi di pistola dai membri della Brigata XXVIII Marzo, guidati da Marco Barbone.
Tobagi lo ha capito e lo ha scritto: i terroristi “non sono samurai invincibili” e si possono sconfiggere. Ne ha sottolineato i punti deboli e le contraddizioni, smascherandoli. Intanto, la lista di magistrati e giornalisti uccisi o gambizzati diventa sempre più lunga e pesante. Il nome del cronista umbro viene trovato in un covo di Prima Linea, ma non gli viene assegnata nessuna scorta. Tempo prima il collega Giampaolo Pansa, a sua volta fra gli obiettivi dei terroristi, gli chiede se abbia o no paura. «Non serve», risponde Tobagi. «Se vogliono, ti ammazzano in ogni caso».
Il dibattito – La notte del 27 maggio è lunga. Comincia molte ore prima, al Circolo della Stampa di Milano. Tobagi in quei giorni è impegnato a raccontare le grandi città al voto, per le elezioni amministrative. Ha appena finito di descrivere Milano, la mattina dopo sarebbe partito per Venezia. «Un tempo i giornalisti parlavano molto. Discutevano della professione, del periodo storico che stavano vivendo. Quella sera ne è un esempio: all’epoca il Circolo della Stampa era un luogo molto vivo, ora è quasi abbandonato. C’era un senso molto forte di partecipazione, che riguardava sia la nascita e la costruzione di un giornale sia il sistema dell’informazione», spiega Giangiacomo Schiavi, ex vice direttore de Il Corriere della Sera, che ha curato il libro Poter capire, voler spiegare. Walter Tobagi quarant’anni dopo, appena uscito nelle librerie.
La sera del 27 maggio, in effetti, c’è molto da discutere. Alle ore 20.00 comincia un dibattito sul segreto istruttorio e sulla fuga di notizie che dal palazzo di Giustizia di Roma raggiungono le prime pagine. Lo organizza lo stesso Tobagi, che all’epoca è anche presidente dell’Associazione Lombarda dei giornalisti, l’organizzazione sindacale territoriale. Massimo Fini assiste: è anche un’occasione per rivedere un amico dopo tanto tempo.
Non è una discussione che nasce dal nulla. «Fabio Isman, un cronista de Il Messaggero, era riuscito a ottenere le carte dei verbali dell’interrogatorio di Patrizio Peci, il primo pentito delle Br. Insieme a Renato Curcio era tra i personaggi di primo piano della galassia terroristica», ricorda Schiavi. «Le carte erano coperte da segreto e quindi non erano pubblicabili. Isman le ottiene per mano di Silvano Russomanno, vice capo del Sisde (Servizio per le informazioni e la sicurezza democratica, ndr)». Il giorno dopo Il Messaggero titola a pagina piena “Ecco i verbali di Peci”. Si scopre però presto che è tutta una manovra per inquinare le indagini e mettere in salvo Marco Donat-Cattin, uno dei capi dell’organizzazione eversiva Prima Linea e figlio di Carlo Donat-Cattin, ex ministro del Lavoro e della previdenza sociale, dal 1978 vicesegretario della DC. «Nelle carte ci sono informazioni precise sul suo nascondiglio, a Padova. Non appena scopre che il suo covo è stato reso pubblico e che le forze dell’ordine sono sulle tracce, scappa in Francia». E si salva. Franco Isman, invece, viene incarcerato per aver violato il segreto d’ufficio. «Il dibattito voluto da Tobagi puntava proprio a mettere in luce questo aspetto: il giornalista rischia di essere strumentalizzato ogni volta che si pubblica una notizia riservata. Consapevole o no, diventa uno strumento necessario per mettere in atto il disegno di qualcun altro», continua Schiavi. E Tobagi se lo chiede: «Chissà a chi toccherà la prossima volta».

Il direttore del Corriere Franco Di Bella e il vicedirettore Gaspare Barbiellini Amidei sul luogo dell’attentato (Archivio Rcs Quotidiani)
Zona Solari – Finito il dibattito, il giornalista de Il Corriere della Sera va in pizzeria con Massimo Fini e Giorgio Santerini. Amici, colleghi. Promotori, insieme ad altri, di una nuova corrente sindacale che ha preso il nome di Stampa Democratica.
Usciti dal locale, salgono sull’Opel Corsa di Fini: accompagnano a casa Santerini e poi si dirigono in zona Solari, dove, in via Salaino, abita Tobagi. Fuori pioviggina e fa freddo, nonostante sia maggio. La strada è deserta. Sotto le luci dei lampioni, i due cominciano a parlare e andranno avanti fino alle 3 di notte.
Si conoscono da quando sono giovani: Fini cronista per L’Avanti, Tobagi per Avvenire. Anni dopo, Fini all’Europeo, Tobagi al Corriere. Ribelle e impulsivo il primo, pacato e riflessivo il secondo. Un mediatore. «Tobagi aveva tre anni in meno di Fini, ma nonostante questo gli faceva quasi da fratello maggiore. E Fini lo accettava: era contento che stemperasse un po’ il suo carattere», sorride Schiavi. In comune hanno l’amore per il pluralismo e l’odio per i dogmi. Entrambi guardano Milano con amarezza. Imbarbarita da terrorismo e corruzione, non è più quella di una volta. Massimo Fini, milanese, pensa agli anni Sessanta con nostalgia: «Nonostante fosse giovane, rimpiangeva lo stesso i tempi andati. Tobagi lo prendeva in giro: si rivolgeva a lui dicendogli “ciao, passato-è-bello”». Gli mancano i “trani” (le osterie) cantati da Giorgio Gaber, i quartieri che finivano nei campi, le latterie, le drogherie dove la gente giocava a carte. Tobagi ha alle spalle un’altra storia: parte dall’Umbria e arriva a Cinisello Balsamo. Farà il pendolare per anni, fino al matrimonio. Non è nostalgico, ma rimane critico: «Vedeva poca passione civile, in un clima sempre più incattivito. Era la Milano della violenza. Riteneva necessario un rinnovamento sociale», prosegue Schiavi.
Due pazzi in auto – Quella sera, mentre Tobagi confessa all’amico di voler chiudere con gli articoli sul terrorismo, Fini rabbrividisce e pensa: «Siamo due pazzi. In un momento storico come questo, fra magistrati e giornalisti uccisi, noi siamo qui a parlare da soli, alle 3 di notte, in macchina». Lo pensa, ma non lo dice. In quel momento sente quanto è pesante il pericolo che entrambi corrono ogni giorno solo perché fanno il proprio lavoro (anche il nome di Fini viene ritrovato in un covo brigatista, nonostante quest’ultimo non si occupi nello specifico di terrorismo, ndr).
Passate le 3, si salutano. Prima di uscire dalla macchina, Tobagi gli chiede quando potranno ritagliarsi un momento per andare con le rispettive famiglie allo zoo, all’epoca nei giardini di via Palestro. Poi apre il portone d’ingresso e sparisce. Fini aspetta finché l’amico non entra in casa. Anni dopo, dirà che questa è l’ultima immagine che gli resta di lui.
Benedetta Tobagi, figlia del giornalista (qui la sua intervista alla Sestina), troverà fra i ricordi del padre alcune lettere lasciate dal cronista alla moglie. Fra le tante riflessioni che ha scritto, ce n’è una che ha prevalso sulle altre, e anche sulla paura: «Non bisogna fuggire dalla responsabilità. Non bisogna sottrarsi all’impegno di essere testimoni del nostro tempo».