Il dito si ferma sul quadratino che raffigura gli gnocchi. Così facendo Filippo (nome di fantasia per tutelare la privacy) indica la sua preferenza tra le varie opzioni presenti nel menù del ristorante.
Non una lista qualsiasi, ma una carta speciale per chi ha difficoltà a parlare. È stata preparata da Paola, la madre del bambino di sei anni, che manifesta tutto il suo stupore: «Non avrei mai pensato che sarebbe stata quella la sua scelta. Gli avrei proposto altro e, forse per stanchezza, avrebbe detto di sì, ma così non sarei riuscita a esaudire il suo desiderio».
Provare a capire suo figlio, a poco a poco, è diventata la sua ragione di vita. Tanto da essere considerata ora come un’esperta della comunicazione aumentativa e alternativa. Una tecnica nata negli anni cinquanta del secolo scorso negli Stati uniti d’America che si basa sull’analisi delle competenze del destinatario. Le immagini delle varie pietanze sono sottotitolate con il nome delle stesse, ma Filippo, di tabelle come questa, ne ha tante. Una per la piscina, una per la merenda, tutte molto accurate. Perché la madre è molto premurosa. E lo è ancora di più da quando sette mesi dopo la nascita del bambino si era accorta che qualcosa non andava.
Tremava. Il piccolo si muoveva in maniera inconsulta mentre lei lo stava cambiando. In un attimo la decisione di correre al pronto soccorso e lì la prima diagnosi. Sindrome di West. Una forma di epilessia che i medici scelgono di curare con il cortisone. Ma nessuno sapeva se, dopo la cura, i sintomi sarebbero ricomparsi. Dopo un mese, Filippo è gonfio e non parla più. La lallazione, la ripetizione delle sillabe, un lontano ricordo. Per i primi suoni bisogna aspettare i due anni: “brum brum” per l’auto e “bau bau” per il cane. Il ritardo nel linguaggio diventa sempre più evidente.
«Credevo che, con il tempo e le cure, il gap con gli altri bambini si sarebbe colmato. Invece, è successo il contrario», racconta la madre con un velo di tristezza. Però non ha mai perso la speranza e ha sempre ricordato le parole dell’infermiera presente al tempo della prima diagnosi: «I bambini con la sindrome di West arrivano, ma un po’ dopo. Hanno i loro tempi». Infatti non voleva avvicinarsi alla bicicletta, ma poi quando ha iniziato a pedalare «sembrava Pantani».
Dopo un’esperienza negativa in una scuola materna, a quattro anni Filippo entra per la prima volta alla Casa dei bambini, ideata da Maria Montessori. Lì conosce la maestra Marta, che diventa il suo punto di riferimento di quegli anni: «Quando è arrivato questo bambino la mia priorità era costruire una relazione con lui. Ho preferito lavorare prima sul livello emotivo e poi su quello cognitivo». Faceva fatica a relazionarsi con i coetanei e ha cominciato a interagire con gli altri solo con l’arrivo della sorella, con la quale comunicava a gesti.
Traumatico il passaggio alle elementari. All’inizio vomitava tutte le mattine e non voleva togliersi lo zaino appena arrivato. Perché voleva dire rimanere a scuola. Poi la maestra Roberta, lo conquista, anche se il loro è un rapporto di “amore e odio”. «Non voglio stare con te», diceva il piccolo. E lei lo portava in un’altra classe. Lui piangeva. Le altre insegnanti gli chiedevano se volesse la sua maestra e il piccolo annuiva. Lei arrivava e il bambino la respingeva.
Filippo le ha lasciato una grande ricchezza, dato che le ha cambiato il modo di percepire la propria fisicità e le proprie espressioni. «Lo intuivi perché il suo corpo parlava per lui. Non ha controllo e non ha il filtro delle espressioni facciali, ma a volte non c’era bisogno di usare le parole», evidenzia la maestra. Prima che sul linguaggio ha lavorato con il bambino affinché riuscisse a farsi capire. Altrimenti, se non veniva compreso, si sentiva frustrato.
È andato dalla psicomotricista e poi dalla logopedista Annamaria. A sette anni non formulava frasi complete, non le costruiva. Era molto sintetico, come un bimbo della scuola materna. «Non pronunciava alcuni suoni come “cia, gia e scia”. Ho lavorato con le immagini usando delle tombole dove, anziché i numeri, c’erano parole che contenevano determinate sillabe. Vinceva chi riusciva a inventare una frase con la parola estratta», sottolinea la specialista. Grazie al lavoro di squadra tra famiglia, insegnanti, logopedista e neuropsichiatra, Filippo ha un’evoluzione positiva. Per il medico: «Le cure hanno degli ottimi risultati e potrà cavarsela egregiamente nella vita».
Pochi giorni fa, Filippo ha sostenuto l’esame di terza media. Come argomento della tesina gli era stato assegnato “Fast and Furious”, una serie cinematografica incentrata sulle corse clandestine di automobili. La sua grande passione. Riesce a collegare diverse materie. Per scienze analizza il funzionamento del motore, la meccanica. Esplora i luoghi dove si sono svolti i vari film per geografia, mentre studia Ford e la catena di montaggio per storia. «Tutti i docenti sono rimasti stupiti dalla sua bravura. Ha fatto un discorso completo», sottolinea Tommaso, l’insegnante di sostegno. Il ragazzo parla per venti minuti e l’esposizione viene valutata con un 10. E pensare che a sei anni non riusciva nemmeno a parlare.