«Eitan ha perso la sua famiglia e sta facendo i conti con i segni che l’incidente ha lasciato sul suo corpo. Lo sradicamento dalla sua casa potrebbe costituire un nuovo shock e risvegliare in lui la sindrome dell’abbandono». A dirlo è Elisa Barbiroli, psicologa ed educatrice di sostegno dell’età infantile, spiegando le possibili conseguenze che il tira e molla giudiziario dell’affidamento potrebbe avere sull’equilibrio psicologico di Eitan, il bambino di sei anni unico sopravvissuto alla tragedia del Mottarone, dove ha perso i genitori, due bisnonni e il fratellino di due anni.
Eitan era stato portato via dall’Italia a settembre dal nonno materno, Shmuel Peleg, che da Travacò Siccomario, paese in provincia di Pavia dove il bambino viveva con la zia paterna Aya Biran, lo ha portato in Israele con un volo privato. L’uomo è accusato di rapimento aggravato dalla Procura di Pavia, ma ancora è incerto il futuro del bambino: dopo il ricorso presentato dai nonni, il 17 novembre la corte suprema israeliana ha sospeso fino al 23 novembre il rientro in Italia del bimbo, ora costretto a rimanere in Israele. Un ordine confermato in due gradi di giudizio a Tel Aviv secondo la convenzione internazionale dell’Aja – come richiesto dalla zia – che regola il caso di minori contesi tra famiglie in due Stati.
Il Tribunale di Israele ha motivato il ritorno in Italia per Eitan con la necessità di una continuità rispetto al suo «ambiente di vita abituale». Che impatto può aver avuto il trasferimento improvviso in un altro contesto familiare e in altro Paese?
Ripercorrendo l’intera vicenda fino ad oggi, stupisce come si sia parlato tanto del rapimento del bambino e delle sue condizioni mediche, ma quasi mai delle sue condizioni psicologiche. È come se le preoccupazioni per questo possibile secondo shock non avessero trovato il giusto spazio nelle vicende pratiche e giudiziarie. Stiamo parlando di un bambino che ha vissuto due lutti, il primo ovvero la perdita dei genitori, e il secondo, lo sradicamento dal posto in cui è cresciuto. Rispetto a questo punto c’è anche chi sostiene che farlo tornare in Italia significherebbe obbligarlo a rivivere il trauma. Ma la casa in cui si trovava, il luogo in cui viveva fino al trasferimento in Israele, non coincide con quello del trauma della morte della famiglia. Non solo, qui Eitan può trovare un sostegno in una rete di figure amiche, così come nel ritorno a quella che era la sua routine.
Che cosa si sarebbe dovuto fare?
Sarebbe fondamentale intraprendere un percorso di recupero psicologico, che d’altronde era stato attivato dal centro di Pavia. Un lavoro, che stando a quanto raccontato dal team che stava seguendo Eitan, iniziava a dare i primi risultati. Ora invece l’allontanamento dalle persone e dai luoghi che stavano diventando un punto di riferimento per il piccolo – che solo pochi mesi fa ha sperimentato il lutto e l’abbandono – potrebbero costituire un nuovo trauma.
Al momento del rapimento lo zio ha dichiarato di essere preoccupato per l’interruzione improvvisa della terapia psicologica.
Non a torto. Eitan non ha gli strumenti per elaborare che cosa gli è successo senza un sostegno psicologico. La zia ha descritto alcuni atteggiamenti del bambino che sono indicativi della sua estrema fragilità e prova dell’abbandono che ha sperimentato. Ad esempio, le chiedeva di lasciare qualche cosa di suo, come gli occhiali, ogni volta che si allontanava, anche solo per andare in bagno, proprio per avere la certezza che la zia non lo lasciasse.
Eitan potrebbe aver sperimentato quindi due volte la sindrome dell’abbandono. Le cure psicologiche dovrebbero concentrarsi soprattutto su questo aspetto?
Bisogna tenere conto del fatto che il bambino adesso stia facendo i conti con quelli che potremmo definire i postumi dell’incidente. Innanzitutto con il “senso di colpa” di essere sopravvissuto, l’incapacità di capire il concetto di morte e di elaborare quello che lui ha vissuto come un abbandono da parte dei genitori. Se a tutto ciò si aggiunge il fatto di essere stato portato via dalla sua realtà di vita quotidiana non è difficile immaginare le conseguenze che l’insieme di queste cose può avere determinato sulle sue condizioni psicologiche. È vero che il nonno ha dichiarato che Eitan avrebbe detto di voler andare in Israele, ma bisognerebbe capire se ha o meno gli strumenti per comprendere cosa significhi effettivamente trasferirsi in un altro Paese. Non dimentichiamoci che stiamo parlando di un bambino di sei anni. I bambini ragionano in modo diverso rispetto agli adulti, concetti assodati in questi ultimi come quello di causalità e di conseguenza non sono così scontati nei più piccoli.
Quanto può fare la differenza per il suo futuro attraversare questo momento traumatico con il sostegno di un percorso psicologico?
La terapia per prima cosa aiuta a dare un senso e a rielaborare, per quanto possibile, quello che è successo. Spesso il non avere risposte o averle falsate può portare più danni di quanto ci si potrebbe aspettare. Certo, anche la famiglia può fare tanto, ma non può sostituire il percorso di un professionista. E le tempistiche sono decisive: se non si interviene nel presente, lasciando sedimentare le emozioni o sentimenti non rielaborati ci si può trovare a dovere fare i conti in un secondo momento con tutta una serie di disturbi post-traumatici da stress che possono diventare anche invalidanti. Eitan avrà sicuramente bisogno di aiuto per molto tempo e su più fronti. L’incidente ha lasciato segni fisici anche sul suo corpo – in questi mesi sta utilizzando un deambulatore – che possono intaccare il processo di consolidamento del sé, percorso a quell’età ancora in fase di elaborazione.