La Bbc lo definì «il satanista più famoso d’Europa», lui preferiva essere chiamato «il Charles Manson italiano». Marco Dimitri, fondatore e presidente della setta de “I bambini di Satana”, è morto il 13 febbraio nella sua casa di Bologna, nel giorno del suo cinquantottesimo compleanno. Il 13 febbraio è anche il ventiquattresimo anniversario dell’inizio del processo che nel 1997 portò il suo nome sulle prime pagine dei giornali, italiani e non. Secondo le prime ricostruzioni sarebbe stato colto da un malore. Alla fine degli anni Novanta Dimitri fu al centro di una controversa inchiesta giudiziaria: accusato di violenza sessuale su minori, di aver orchestrato riti satanici utilizzando resti umani e di aver profanato tombe, fu in seguito prosciolto dopo aver scontato oltre 400 giorni di carcere, e risarcito con 100mila euro per ingiusta detenzione. All’epoca l’opinione pubblica si divise in colpevolisti e innocentisti, fra chi vedeva in Dimitri e nei suoi sodali un’autentica incarnazione demoniaca e chi invece riteneva la setta al centro di un errore giudiziario.
Le accuse – Dimitri si approcciò per la prima vola alla cultura satanista a diciannove anni, quando insieme ad altri cinque adepti fondò il gruppo de “I bambini di Satana”, di cui assunse la presidenza: la setta, che superava i mille membri da ogni parte d’Italia, prevedeva un vero e proprio organigramma, al cui vertice sedeva il bolognese, che spesso amava farsi fotografare in compagnia di teschi, oltre a definirsi “la Bestia 666” e la “reincarnazione di Satana”. Proprio la sua immagine poco rassicurante contribuì ad alimentare l’astio intorno a lui, quando nell’autunno 1995 venne accusato di stupro ai danni di un bambino e di altre due minorenni. Tutto iniziò quando una ragazza di sedici anni riferì di essere stata violentata durante un rito iniziatorio dopo aver bevuto un caffè narcotizzante. Ne nacque un’inchiesta coordinata dal pm Lucia Musti, che in primo grado chiese per Dimitri una condanna a otto anni. Il 13 febbraio 1997 si tenne la prima udienza del processo ai danni della setta: sul banco degli imputati il “gran sacerdote” Dimitri, il suo braccio destro Pier Giorgio Bonora, l’adepto Rino Luongo, il “maestro” Damiano Berto e le “sacerdotesse” Cristina Bagnolini e Manuela Ferrari.
Il processo e il proscioglimento – Dimitri negò sempre le accuse a suo carico: «Siamo innocenti. Quella ragazza l’avrò vista sì e no due volte, mi hanno incastrato», si difese in tribunale. Agli atti c’era anche il disegno di un bambino che secondo l’accusa rappresentava un sacrificio umano a cui il bimbo avrebbe assistito durante uno dei riti sessuali della setta. In seguito le sentenze dichiararono l’inattendibilità della supertestimone e Dimitri, che intanto era stato arrestato e aveva trascorso più di cento giorni in carcere in attesa di giudizio, venne prosciolto sia in primo grado che in appello, nel 2000: l’assoluzione fu richiesta anche dalla Procura generale. «L’unica cosa infernale è quella che ho dovuto subire», dichiarò in seguito, spiegando che la setta avrebbe continuato ad esistere: «Per noi “Satana” è solamente un termine per identificare un’opposizione all’oscurantismo intellettuale perpetrato dalle religioni». L’epilogo giudiziario giunse nel 2004, con il risarcimento per l’ingiusta detenzione stabilito da una sentenza della Corte di appello di Bologna: 100mila euro per Dimitri, 50mila per l’adepto Gennaro Luongo.
La candidatura in Parlamento – Nonostante l’archiviazione della vicenda giudiziaria, negli ultimi anni la figura di Marco Dimitri continuò a fare discutere: nel 2007 conobbe l’astrofisica di fama internazionale Margherita Hack, divenendo membro dell’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti. «D’altronde, io stesso sono un satanista razionalista», spiegò. Nel 2013 la grande ribalta, di nuovo: in occasione delle elezioni legislative si candidò – senza successo – nella circoscrizione Lazio 2 nelle fila di “Democrazia Atea”, con capolista proprio Hack. Ottenne poche preferenze, Marco Dimitri. Molte meno delle migliaia di lettere che riceveva dai suoi ammiratori durante il processo, e dei messaggi di cordoglio che oggi sui social celebrano la scomparsa del “Charles Manson italiano”.