«Non voglio finire come Giulia». Questo l’inizio delle centinaia di migliaia di chiamate arrivate nel corso dell’ultimo anno al numero contro le violenze di genere 1522. In aumento del 70 per cento rispetto all’anno precedente, le denunce e le richieste di aiuto vedono una diminuzione dell’età delle vittime, ma restituiscono anche uno scenario di maggior consapevolezza rispetto ad una situazione che la morte di Giulia Checchettin ha aiutato a mettere in luce. Francesco Menditto, procuratore capo della procura di Tivoli, da anni, nel suo lavoro quotidiano, si occupa di contrastare la violenza di genere.

Sono passati dodici mesi dalla morte di Giulia Checchettin, cosa è accaduto in quest’anno? Ci sono stati cambiamenti?

Alla procura di Tivoli abbiamo lavorato, come accadeva anche prima, su tantissimi casi di segnalazioni di violenza di genere. Abbiamo riscontrato un incremento delle denunce che è maggiore rispetto al passato, anche se il trend era già in aumento. Sicuramente nei tre mesi successivi all’omicidio di Cecchettin c’è stato l’aumento più significativo: fino al 30 per cento in più. In tutti questi mesi abbiamo notato una maggiore preoccupazione da parte sia delle donne, che dei loro familiari e di chi appartiene al loro contesto: ad esempio c’è stato un aumento delle segnalazioni da parte dei vicini di casa. La morte di Cecchettin è stata un’occasione, purtroppo tragica, per incrementare la necessità di una vigilanza continua. La nostra esperienza come procura dimostra che ce la possiamo fare: c’è un lavoro attento di rete in cui tutti i soggetti che si occupano di questo, parlano tra di loro e danno fiducia alle donne, consentendo di fare dei passi avanti pure a risorse invariate.

Questione braccialetti: tre femminicidi tra settembre e ottobre e il Viminale parla di problemi di connessione. 

Prima di tutto nei tre casi di Foggia, Civitavecchia e Torino non sappiamo ancora quale sia stata la criticità del funzionamento dei braccialetti e dobbiamo stare attenti a non lanciare allarmi ingiustificati. Il braccialetto elettronico, diventato obbligatorio nel dicembre 2019, prima era facoltativo e applicato molto raramente. È sicuramente uno strumento che funziona ed è molto utile perché tutela non solo la persona offesa, che tramite il telefonino può mandare un allarme in caso ci sia qualcosa che non va, ma anche il presunto autore del reato che – sapendo di essere scoperto – non dovrebbe commettere le violazioni. L’obbligo ha decuplicato la presenza di braccialetti e l’aumento numerico ha moltiplicato anche le problematiche: prima erano poche, ora sono più diffuse. Le criticità ci sono, ma le autorità competenti stanno lavorando con dei ministeri per ridurle e sono convinto che nel giro di qualche mese la situazione migliorerà drasticamente. Bisogna stare molto attenti a non fare passi indietro: non avere più il braccialetto obbligatorio equivarrebbe a ridurre la tutela delle donne e perfino quella degli autori del reato.

Quanto l’ammonimento del questore può funzionare?

L’ammonimento è una “tirata d’orecchi” che fa il questore di fronte alla segnalazione della parte lesa o in altri casi in cui lo può fare d’ufficio. L’esperienza dimostra che può essere utile quando siamo nelle fasi iniziali della violenza perché ricorda al soggetto che in caso continui a commettere questo tipo di atti, andrà incontro a conseguenze. Se siamo difronte a uno stadio più avanzato l’ammonimento è invece sicuramente insufficiente, e c’è bisogno di provvedimenti più drastici.

Sarebbe utile istituire un reato di femminicidio o parliamo di un termine specificatamente mediatico? 

Si, va assolutamente inserito il delitto di femminicidio, cioè l’uccisione di una donna in quanto donna con ulteriori specifiche da inserire in un secondo momento. Parliamo di un fenomeno criminale che ha alle origini un retroterra culturale. Nominare i fenomeni criminali e descriverli in una norma aiuta a riconoscerli, a renderli evidenti. La mafia, ad esempio, non era inserita in una norma: viene descritta per la prima volta in maniera chiara con il 416bis del 1982, dopo l’uccisione di Pio La Torre e del generale Dalla Chiesa. Avere scritto che cos’è l’associazione per delinquere di stampo mafioso ha consentito una maggiore consapevolezza non solo da parte della magistratura e delle forze dell’ordine, ma anche da parte di tutti nel riconoscere questo fenomeno criminale che era inizialmente negato. Allora inserire in una norma penale il delitto di femminicidio consentirebbe di renderlo presente a tutti. Pensi che il reato di omicidio è oggi descritto come “Colui che cagiona la morte di uomo”. Non c’è la parola donna.

Cosa pensa dell’esposizione mediatica che c’è stata con il processo Turetta? 

Sono assolutamente contrario alla spettacolarizzazione dei delitti perché non aiuta a comprendere che cosa c’è dietro la complessità di un processo penale. Ci sono centinaia e a volte migliaia di atti nel processo penale, e semplificarli sui social o in televisione porta solo confusione. Quando c’è un femminicidio dovremmo pensare piuttosto a descrivere i fattori di rischio che avremmo dovuto cogliere e alla prevenzione che si sarebbe dovuta mettere in campo.

Che tipo di futuro vede per educare e rendere consapevole l’opinione pubblica riguardo al tema? 

Per fare dei passi avanti concreti dobbiamo capire che cosa ci sia dietro questo fenomeno. La violenza maschile nei confronti delle donne nasce dalla discriminazione storica che le donne hanno subito e subiscono ancora oggi. Solo nel 1965 le donne sono entrate in magistratura, nel Settecento c’era addirittura una legge che impediva loro di imparare a leggere e scrivere, mentre nell’avvocatura sono entrate solo a Novecento avanzato ed ancora oggi la discriminazione salariale o nei luoghi di lavoro è ben presente. È chiaro che per eliminare la violenza di questo tipo bisogna eliminare la discriminazione, e bisogna quindi che passi all’interno del sociale e del culturale la piena parità di genere: la donna deve essere riconosciuta come persona titolare di diritti e libera di potersi separare senza temere ritorsioni. Come si fa tutto questo? Ci sono due step: il primo è quello di carattere culturale, che deve nascere dalla scuola. L’educazione alle relazioni e al rispetto dell’altra, in quanto donna, deve avvenire sui banchi di scuola ma anche sui mezzi di informazione. Il secondo step è il pronto soccorso, ovvero gli interventi mettere in campo nel momento dell’urgenza. C’è bisogno di una grande formazione e specializzazione per essere d’aiuto a chi chiede aiuto: da parte di magistrati, forze dell’ordine, operatori. Se la richiesta di una donna viene banalizzata, non viene ascoltata o non viene creduta, viene agevolata la sua ritrattazione.