Nella serata di mercoledì 10 aprile venti migranti partiti dalla Libia e rimasti in mare per 15 ore in attesa di soccorsi sono stati riportati alle coste di partenza. Il ministro dell’Interno Matteo Salvini, che ha negato all’imbarcazione l’approdo in Italia, ha commentato «I famosi 20 che ‘stavano affondando’ sono stati prontamente salvati dalla Guardia Costiera libica e riportati a terra. Molto bene!». La Libia però non è considerata un ‘porto sicuro’: l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati ha nei giorni scorsi ribadito che «le condizioni in Libia non sono sicure per i rifugiati e i migranti soccorsi o intercettati e che, pertanto, essi non devono esservi ricondotti». Il soccorso in mare e il trattamento dei rifugiati sono regolati da complessi trattati internazionali a cui l’Italia aderisce e non è facile interpretarli correttamente.

Divieto di respingimento – La Convenzione di Ginevra del 1951, da non confondere con le diverse Convenzioni di Ginevra che regolano le leggi internazionali di guerra, definisce cosa si intende per rifugiato, i suoi diritti e i doveri di accoglienza degli Stati. Il trattato è sottoscritto da oltre 140 Paesi, tra cui l’Italia, ma non dalla Libia. All’articolo 33 si parla del diritto di non-refoulement, ovvero di non-respingimento: «Nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate». È inteso prima di tutto l’eventuale Paese dove il rifugiato è perseguitato, ma anche qualunque altro luogo dove non è possibile garantirgli adeguata sicurezza, come adesso è la Libia. L’articolo 33 aggiunge «la presente disposizione non può tuttavia essere fatta valere da un rifugiato se per motivi seri egli debba essere considerato un pericolo per la sicurezza del paese in cui risiede».

Le leggi del mare – La ‘Convenzione internazionale sulla ricerca ed il salvataggio marittimo’ (detta anche Sar, “Search and rescue”) viene firmata ad Amburgo nel 1979. Afferma che «Tutti i soggetti, pubblici o privati informati di avaria o difficoltà per imbarcazioni o persone in mare, devono intervenire quando ci siano vite in pericolo». Misure simili sono previste dalla Convenzione di Montego Bay e dallo stesso Codice della navigazione italiano. L’Italia non ha mai evitato di intervenire in soccorso nei territori di sua competenza, i problemi sorgono infatti quando i migranti sono su una barca a rischio di affondare al di fuori delle acque italiane o in attesa in sicurezza su una nave delle Ong. I limiti sono dettati dalla Conferenza di Valencia del 1997, che ha diviso il Mediterraneo in zone SAR assegnato ciascuna ad uno Stato. Quella italiana grossomodo segue la linea costiera in Adriatico, comprende l’intero Tirreno, divide a metà lo Ionio con la Grecia e, soprattutto, arriva fino a Lampedusa disegnando un grosso triangolo che come vertice l’isola simbolo della crisi migratoria nel Mediterraneo e le due isole maggiori di Sardegna e Sicilia.

Come funziona il soccorso – Quando la Guardia costiera italiana riceve un Sos da una nave in avaria, è tenuta ad intervenire in prima persona se all’interno della propria Sar o anche al di fuori se è la prima a ricevere il messaggio. Le autorità italiane possono obbligare a collaborare al soccorso qualsiasi nave privata sia presente nella zona e richiedere l’intervento di unità militari. Una volta soccorsi i naufraghi al di fuori della Sar del nostro Paese, se lo Stato competente si rifiuta di eseguire i propri doveri (capita spesso con Tunisia e Libia), è compito della Guardia costiera portare i naufraghi in un place of safety, un porto sicuro, definito come tale in collaborazione col ministero dell’Interno.
Il problema è quando la richiesta di soccorso non arriva direttamente da una carretta a rischio di affondare, ma da una nave di una Ong che ha già messo in sicurezza i migranti dal pericolo immediato di annegare e richiede il permesso di farli sbarcare in porto. Nessuna norma internazionale regola l’accoglienza o il respingimento di una nave non tecnicamente in avaria o in pericolo, pertanto la decisione sull’approdo è lasciata ai singoli Stati.