Pioveva e faceva freddo a Milano la mattina del 28 maggio 1980. Il corpo di Walter Tobagi era steso sull’asfalto bagnato di via Salaino. La figlia Benedetta di tre anni era lì, ma non se lo ricorda. Non si ricorda «la voce con un accenno di zeppola dal tono quasi pastorale» o «il sorriso aperto». L’uomo e il giornalista che era suo padre l’ha conosciuto nei 40 anni successivi attraverso i suoi articoli, i libri, le foto, le lettere private e le registrazioni.
Benedetta Tobagi racconta il percorso per costruire «un ricordo che non c’è». La consapevolezza del legame con un pezzo di storia collettiva che ha segnato la sua vita professionale, e il confronto costante con la profondità di analisi e prospettiva del padre trovato nelle parole. Ancora oggi «un pungolo, uno stimolo e un’ispirazione per chi voglia fare il giornalista».
Qual è la prima immagine che le viene in mente pensando a quel 28 maggio di 40 anni fa?
La prima immagine è mio padre morto in camera ardente, perché il ricordo più forte fortunatamente l’ho rimosso: io, che allora avevo tre anni, sono arrivata con mia madre in via Salaino subito dopo l’omicidio, quando lui era ancora lì steso sull’asfalto. Poi ho avuto la fortuna di ricostruire l’immagine, che non avevo, di mio padre da vivo e nel pieno della sua attività, attraverso i suoi articoli, i libri scritti, le foto e le registrazioni. Per me, anche se non lo ricordo, mio padre è quell’uomo sorridente delle immagini che lo ritraggono al lavoro. Dalla foto mentre sta intervistando Moro a quella in cui esce dall’ufficio di un magistrato: ha quel sorriso aperto che chi l’ha conosciuto ricorda di lui come prima cosa. Poi, mi viene in mente la voce: un accenno di zeppola dal tono quasi pastorale, un po’ da cardinale, che non ti aspetteresti da una persona così giovane. Grazie a un autore della Rai, che ha ripescato la rassegna condotta da mio padre per Prima pagina di Radio 3, ho potuto riacquistare una familiarità con quella voce di cui non ho nessun ricordo (qui il giornalista in un dibattito con alcuni esponenti sindacali trasmesso dalla Rai, ndr)
Cosa significa cercare di conoscere il proprio padre attraverso i suoi articoli, gli scritti privati, i ricordi degli altri, gli atti giudiziari?
Mio padre è stato un ragazzo e poi un uomo che prima di tutto aveva una forte vocazione. Per la professione di giornalista, per la ricerca storica e per l’attività sindacale a cui si è dedicato con entusiasmo. Vedere i suoi materiali di lavoro ha significato conoscere l’uomo che era. Questo perché in lui c’era una compenetrazione profonda e coerente tra individuo e identità professionale. Mi commuove sempre una lettera della fine del ‘69 in cui, giovane e consapevole di essere bravo, scrive a mia madre: «Sarà divertente spiegare, e anche bello poter dire di essere riuscito a fare qualcosa… Non voglio fare un discorso presuntuoso, non sono ancora che all’inizio di una carriera e di una vita che spero serva a qualche cosa, non soltanto al mio egoismo e al mio egocentrismo». Stupisce come il suo successivo impegno nel lavoro fosse già lì in quelle parole.
Dove ha ritrovato di più suo padre?
È ancora una volta nelle parole lasciate che ho trovato mio papà. In un punto della lettera scritta a mia madre nel Natale del ‘78, riportata in parte nella targa di via Salaino, la prega, se dovesse succedergli qualcosa, di spiegare ai michelangiolini (così chiamava me e mio fratello Luca, perché mia madre da ex docente di disegno amava disegnare le figure di Michelangelo) che quello che lui aveva fatto era stato per rendere un po’ meno assurda la società in cui avremmo vissuto. Qui c’è lo stesso dovere verso il bene collettivo unito al pensiero dei propri cari che lega le lettere scritte da molte vittime del terrorismo prima di essere assassinate, da Giorgio Ambrosoli a Guido Rossa. Impegnarsi per migliorare la società anche perché è quella dove vivranno i propri figli: è in quelle parole in cui lavoro e privato si toccano che ho potuto sentirmi pensata e amata come figlia.
Quanto del bisogno di verità e di chiarezza che guida la sua attività di scrittrice e ricercatrice è una conseguenza di quel 28 maggio?
Il 28 maggio 1980 è stato la porta d’ingresso e il canale di contatto. Io mi sono avvicinata alla ricerca storica a partire dalla mia vicenda personale, ma ho capito molto presto che il mio vissuto era intrecciato in modo inestricabile con la storia collettiva. È come se la passione già in me per la scrittura e la ricerca si fosse a poco a poco liberata. Mi sono accorta che i fatti che avevano sconvolto la mia vita potevano avere un senso come parte di questa storia più grande. Per cui dedicarmi allo studio dello stragismo, una pagina importante e ancora aperta della storia repubblicana italiana, nasce proprio da questa consapevolezza. Non è mai stato un dovere, ma qualcosa che sento di fare e ho la fortuna di poter fare. E ora, che ho 10 anni più di quelli che aveva mio padre quando è stato ucciso, confrontarmi con una produzione così densa per i suoi soli 33 anni è per me un forte stimolo a continuare il mio lavoro.
Un’analisi rigorosa dei fatti senza mai fermarsi a una verità parziale per il dovere di capire e di informare: il metodo di lavoro di Walter Tobagi. Non crede che possa essere questa la vera eredità di suo padre per lei, ma anche per chiunque voglia fare il giornalista?
Oltre a essere diventato suo malgrado un martire, nonostante la giovane età quello che è rimasto del lavoro di mio padre è significativo ed esemplare proprio dal punto di vista del metodo giornalistico, che molto deve alla sua formazione storica. Lo scrupolo e la capacità analitica nelle inchieste socio-politiche unita alla profondità nell’affrontare i fatti di cronaca. Credo sia esattamente per questo motivo che gli sia stata intitolata la Scuola di giornalismo che fa parte di quella che è stata la sua Università, la Statale di Milano. E io sono assolutamente convinta che il suo metodo possa essere ancora oggi un pungolo, uno stimolo e un’ispirazione per chi si avvicina alla professione e per gli studenti della Scuola Walter Tobagi, i tobagisti come si chiamano tra loro: la cosa che mi fa più piacere