Fisco amaroo per la famiglia di Giulia Galiotto, uccisa nel 2009 dal marito Marco Manzini a San Michele dei Mucchietti, in provincia di Sassuolo. L’Agenzia delle entrate ha infatti inviato ai familiari della vittima, a partire da febbraio 2024, tre cartelle esattoriali calcolate sull’intera cifra del risarcimento, 1,2 milioni di euro. Eppure questi soldi non sono mai stati incassati, se non in minima parte. Giovanna Ferrari, la madre di Galiotto, ha dichiarato a la Repubblica di aver ricevuto soltanto 4.600 euro, quando lo Stato le chiederebbe tasse per più di 6.000. A marzo 2022 l’omicida era stato assunto in prova da un’azienda di Reggio Emilia. Una volta tornato in libertà, dopo aver scontato 15 anni, si è licenziato e risulta ora nullatenente. Risulta perciò difficile pensare che possa mai risarcire la famiglia.

Il colpevole – L’11 febbraio 2009 Manzini uccise la 30enne Galiotto, colpendola in testa con una pietra. Poi nascose l’arma e cercò di occultare il corpo della vittima gettandolo nel fiume Secchia, tra le colline che guardano Modena. Tentò persino di inscenare il suicidio della moglie, prima di confessare il delitto. Grazie al rito abbreviato ottenne una pena ridotta a 19 anni e quattro mesi, ulteriormente diminuiti da riti premiali e misure alternative al carcere. Ora è libero e nullatenente. Appena rilasciato, nel luglio 2024, ha infatti rassegnato dimissioni volontarie all’azienda che un paio di anni prima lo aveva assunto in prova. Un contratto a tempo indeterminato, con uno stipendio dignitoso. Manzini aveva offerto di pagare 50 euro al mese per riparare il danno causato. La famiglia Galiotto si era sentita insultata e aveva poi ottenuto il pignoramento di un quinto del suo stipendio, una cifra pari a 250 euro.

Il risarcimento – Secondo l’articolo 2043 del Codice civile italiano, «Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno». Nel caso di un omicidio, il colpevole è il primo responsabile del risarcimento. Tuttavia, il fatto che un tribunale riconosca il diritto al risarcimento non assicura che la parte lesa riceva la cifra concordata. Se l’omicida è nullatenente i familiari posso attingere al Fondo statale per le vittime dei reati violenti, istituito nel 2006 e che garantisce al massimo un indennizzo di 50mila euro, chiaramente insufficiente.
In ogni caso, l’Agenzia delle entrate calcola la tassazione sulla base dell’intera cifra precettata, non su quella percepita.

L’Agenzia – Non è chiaro perché l’Agenzia delle entrate richieda tasse su una cifra non ancora versata. Una prima ipotesi è quella della prospettiva di reddito. Pur non avendo ancora incassato il risarcimento, l’amministrazione fiscale potrebbe considerare che, una volta ricevuto, andrà ad aumentare la capacità economica della famiglia. Sostanzialmente si considera la cifra già a disposizione dei destinatari. In questa circostanza, essendo il risarcimento elevato potrebbe anche essere interpretato come parte del patrimonio familiare e essere tassato come tale. Resta aperta la possibilità di un errore burocratico. Questo potrebbe essersi verificato per mancanza di aggiornamento delle informazioni oppure per la confusione tra i fondi ricevuti e quelli in attesa di pagamento.
La famiglia potrebbe ora presentare ricorso e chiedere almeno la sospensione delle imposte, nell’attesa di controllare la documentazione fornita e di consultare uno specialista. Resta la rabbia, con la madre della vittima che dichiara a Qn: «Una sorta di beffarda penalizzazione della parte lesa, per scoraggiarne le azioni a tutela dei propri diritti, a tutto vantaggio dell’autore del reato».